AUGUSTINE: ELEGIE DAI GIARDINI DELL' ADE

 


 

 

Sara Baggini, in arte Augustine.

Il suo lavoro più recente, Proserpine, è uno scrigno magico in cui le prospettive si confondono. Le tredici tracce che compongono l’opera si presentano come veri e propri bassorilievi musicali, resi tali grazie al connubio tra l’intensa interpretazione vocale dei testi e gli arrangiamenti essenziali. Se però contempliamo Proserpine nella sua interezza ci accorgiamo che le singole parti costituiscono un unico poema elegiaco, uno “studio sulla sensibilità femminile” come è stato definito in una recensione polacca.



 

LG: da Grief and Desire a Proserpine sono trascorsi tre anni: ritieni il tuo ultimo lavoro un punto di arrivo o un nuovo inizio?

A: Spesso i due contrari coincidono. Dipende in che direzione volgo il mio sguardo, avanti o indietro. Ho sempre pensato a Proserpine come ad un “salto di qualità” rispetto a Grief and Desire, non perché sia migliore, ma perché è un lavoro più maturo. È chiaro, però, che a questo punto le strade si aprono verso possibilità ancora nuove, di cui Proserpine non custodisce che i germi.



LG: Pur essendo una polistrumentista (chitarra, basso, piano rhodes, sintetizzatori, percussioni…) in Proserpine hai scelto deliberatamente di scrivere arrangiamenti asciutti, quasi minimali. Vorresti parlarci dei motivi che ti hanno spinta verso questa scelta stilistica?

A: Rispetto a Grief and Desire sentivo l’esigenza di tornare un po’ alle mie origini, al mio primo album, One Thin Line. I nuovi brani lo richiedevano, essendo stati composti essenzialmente con chitarra e voce. In un certo senso li sentivo già quasi completi in quella forma. Non volevo orpelli, solamente l’essenziale, solamente il necessario. È stato proprio uno dei capisaldi da cui siamo partiti il mio produttore, Fabio Ripanucci, ed io. Il suo aiuto è stato fondamentale anche nell’asciugare i suoni, che nell’album precedente risentivano pesantemente dell’influenza di alcuni cliché di derivazione “wave”. Inoltre, desideravo che ad essere protagoniste degli arrangiamenti, piuttosto che gli strumenti, fossero le armonizzazioni vocali: è vero che, se c’è la necessità, mi arrangio a suonare di tutto (pur avendo scarse conoscenze), ma il mio strumento rimarrà sempre la voce.



LG: da cultore della grafica dei dischi devo dire che la copertina di Proserpine è di quelle che non si dimenticano: vorresti raccontarci come è nata? E cosa rappresenta il melograno?

A: Quando concepisco un nuovo lavoro, un nuovo album, l’immaginario visivo è sempre parte del processo creativo. In realtà è stato un quadro, Proserpina di Dante Gabriel Rossetti, a suggerirmi l’idea di un’identificazione e a guidare l’intero lavoro. L’immagine – tra i miei quadri preferiti – rappresenta la dea nell’atto di gettare uno sguardo fugace verso un’apertura momentaneamente apertasi dalle porte del palazzo dell’Ade: quello sguardo era esattamente come il mio. La foto di copertina, opera dell’artista Francesco Capponi, è una sorta di tableau vivant di quel dipinto. Per l’occasione è stato utilizzato un autentico banco ottico vittoriano, non solo per amore della filologia (il dispositivo è contemporaneo e conterraneo di Rossetti) ma proprio per conferire all’immagine una grande distanza, una connotazione temporale lontana. È Rossetti stesso ad eleggere il melograno come simbolo del destino di Proserpina. Come il mito racconta, la dea avrebbe potuto salvarsi e riemergere dagli inferi, dove Plutone l’aveva condotta per farne la sua sposa, se solo “non avesse toccato alcun frutto dei giardini dell’Ade” – così aveva sentenziato Giove, di fronte alle disperate richieste di Cerere di liberare la figlia. Ma Proserpina aveva mangiato un chicco di melograno e questo la condannò. Il melograno diventa sigillo di inesorabilità. L’elemento è stato chiaramente mantenuto anche nella foto di copertina (e tra l’altro Pomegranate è anche il titolo di un brano) ed è opera in ceramica dell’artista Maria Diletta Rondoni.



LG: l’intro di The Dark Place ha connotati fortemente sperimentali: qual è il tuo rapporto con la musica di ricerca come l’elettroacustica o l’ambient?

A: Premetto che non faccio nulla per amore della sperimentazione; anche laddove mi addentro in territori più impervi è sempre per ottenere un risultato ben preciso che ho in mente, come nel caso dell’intro di The Dark Place. Qui mi sono spinta forse verso una possibile deriva della mia musica, quella di creare brani quasi totalmente vocali, con varie stratificazioni che si intrecciano (anche non necessariamente in armonia). Realizzare un album esclusivamente vocale è un mio desiderio da tempo e prima o poi lavorerò certamente in questo senso. Non posso non citare l’influenza di musica come quella di Julianna Barwick o Meredith Monk o persino Enya (artiste provenienti da mondi totalmente diversi
ma accomunate dal fatto di lavorare sulla stratificazione vocale) sul mio lavoro. Talvolta non mi dispiace ascoltare musica ambient, per esempio amo Brian Eno anche nelle sue espressioni più rarefatte, oppure adoro l’album Digital Shades Vol. 1 di M83: mi sento vicina a quel tipo di musica per una sorta di “ricerca di elevazione”, che poi spesso equivale ad un tuffo nell’abisso, anche se so di possedere un animo troppo inquieto per poter creare qualcosa che vada davvero in quella direzione.



LG: tutti noi prima di essere musicisti siamo stati consumatori di musica (e fortunatamente lo siamo tutt’ora): quali aspetti di un disco catturano da sempre la tua attenzione?

A: Credo più o meno gli stessi aspetti che catturano ogni consumatore di dischi. Certamente l’immagine di copertina, o meglio: l’immaginario visivo che accompagna un’uscita; con esso, anche la scelta dei materiali e delle tecniche di stampa. La track-list è un’altra cosa che leggo sempre prima di un acquisto o un ascolto: i titoli mi devono veramente incuriosire, così come il titolo del disco. Ma in generale sono una consumatrice piuttosto selettiva, quindi devo ammettere che l’essere il prodotto di un artista che amo e da cui mi aspetto molto è in assoluto il requisito più importante per me.



LG: aver vestito i panni della dea dell’oltretomba ha cambiato la tua personale visione della vita e della morte?

A: Mi permetto di ribaltare il periodo: ho vestito i panni della dea dell’oltretomba proprio perché c’era (e c’è) una ben precisa – ed assolutamente personale – visione della vita e della morte; non si è trattata di una scelta programmatica, si è trattato, semmai, di constatare una condizione che riconduceva al mito. Io ero già lì, in quell’esatto punto. Portare a termine questo lavoro non ha cambiato la mia visione delle cose, al contrario, ne ha dato piena espressione; posso dire di aver condotto un complesso processo interiore – non solamente artistico – fino in fondo, di aver toccato il fondo dell’abisso e di esserne risalita. E la figura di Proserpina (insieme ad altre figure femminili provenienti da mito o letteratura, che di volta in volta incarno) è tutt’altro che passeggera nella mia esistenza.



LG: Proserpina rimarrà nelle profondità dell’Ade o tornerà a osservare le stelle?

A: Come il mito stesso racconta, credo che Proserpina continuerà per l’eternità a trascorrere parte della sua esistenza nell’oscurità degli inferi e parte nella luce della vita. Morirà e rivivrà milioni di volte. O forse continuerò – e qui mi riapproprio della prima persona – a camminare su quel filo sottile, quella cresta dove il punto più alto e quello più basso dell’esistenza coincidono fatalmente. Del resto non sono capace di posizionarmi altrove.



LG: Grazie.

A: grazie a te!

 


 

Per approfondire:

augustine18.bandcamp.com

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