BECUZZI, BOCCI, CIULLINI, DEISON: IMMAGINARE È RESISTERE




Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) è un trattato scientifico in forma dialogica di Galileo Galilei a sostegno della teoria eliocentrica copernicana rispetto al modello geocentrico tolemaico appoggiato da Aristotele e dalla filosofia scolastica. Nella conversazione che segue però non disputeremo del ruolo del nostro martoriato pianeta all’interno del sistema solare anche se, per un compositore, gli argomenti trattati – nello specifico, l’ispirazione e l’immaginazione - possono a ragione essere equiparati a colonne portanti dell’arte musicale. I processi creativi che sottintendono alle produzioni musicali, se svelati, possono restituire una fotografia piuttosto accurata della personale visione che l’autore intendeva perseguire e l’immaginazione ci consente di esplorare altre e nuove possibilità, decostruendo e riassemblando in modi sempre diversi il nostro vissuto musicale. 

Quattro veterani della scena sperimentale nostrana sono stati invitati a confrontarsi con queste tematiche, alternandosi in una conversazione che alla lettura risulta molto meno astratta e teorica di quanto non si potrebbe presumere, lasciando affiorare in superficie un genuino idealismo che ancora si oppone alle logiche di mercato e al culto dell’immagine.



Gianluca Becuzzi, musicista e compositore italiano di musica elettroacustica. Fondatore dello storico progetto dark-wave Limbo, inaugura la sua attività solista con il moniker Kinetix e successivamente a proprio nome, accentuando gli elementi concettuali già presenti nei suoi precedenti lavori ed esplorando con sempre maggiore interesse le possibilità espressive della chitarra baritona, arrivando a formulare un’atipica forma di post-doom dalle tinte scure ed esoteriche.

 

 

  

Daniele Ciullini, musicista, sound artist e artista multimediale, nei primi anni '80 realizza lavori autoprodotti nel formato audiocassetta + booklet. Il lavoro di quegli anni è stato interamente ristampato da etichette quali Ecstatic, 777 was 666, Spittle, Old Europa Café. Dopo una lunghissima sosta riprende a produrre con una serie di lavori d’impronta dark ambient/post-industrial, inizialmente distribuiti in rete da una decina fra siti e netlabel e successivamente stampati su formato fisico da Luce sia, Silentes, Marguerite Records, Fango radio, Unexplained sounds, Datapanic. 


 

Cristiano Bocci, professore di Geometria all'Università di Siena, polistrumentista (chitarra, basso elettrico, contrabbasso, theremin), sound designer e compositore. Da oltre dieci anni si occupa di improvvisazione elettroacustica, sound design, field recordings e soundscape composition. È organizzatore di workshops su improvvisazione, PureData e Max.


 

Cristiano Deison, musicista e sperimentatore attivo fin dagli anni ’90 con il progetto Meathead di Teho Teardo e con numerose collaborazioni con artisti italiani e internazionali (Simon Balestrazzi, Maurizio Bianchi, Scanner, Lasse Marhaug tra gli altri). Esploratore di microsonorità, inedite textures elettro-acustiche, fruscii e rumori, i suoi dischi sono stati pubblicati da numerose labels in Giappone, Usa, UK, Italia, Svizzera e Germania.




 

LG: Il processo creativo è lo strumento attraverso cui concretizziamo una visione musicale e allo stesso tempo è un'intima esplorazione delle nostre possibilità. Alcuni artisti lo condividono, altri lo nascondono gelosamente. 

 BECUZZI: Tendo sempre ad esplicitare e condividere il mio processo creativo. Ho sempre ammirato chi lo fa, trovando che questo costituisse un valore aggiuntivo. Essere consapevoli dei meccanismi che mettiamo in atto e dichiararli non può che essere un punto a proprio vantaggio. Qualcuno mi ha fatto però notare che celare l’opera dietro ad un certo alone di mistero aggiunge fascino all’opera stessa e devo ammettere che anche questo e vero. Nonostante ciò, sono pronto ad assumermi tutti i rischi del caso, io non posso proprio tacere.  

BOCCI: Il processo creativo è senza dubbio uno degli strumenti più preziosi per un artista, in quanto è la lente attraverso cui una visione musicale prende forma concreta. Ma non è solo un mezzo tecnico: lo paragonerei anche ad un viaggio intimo e personale che esplora i limiti e le potenzialità di ciascuno. Da questo punto di vista, il processo creativo è tanto un riflesso del nostro approccio artistico quanto una finestra sulla nostra interiorità. 

La scelta di condividerlo o di tenerlo nascosto è profondamente individuale e legata al modo in cui ci si relaziona alla propria arte. Alcuni artisti sentono il bisogno di svelare il loro percorso per ispirare o per creare un dialogo aperto con il pubblico, dando uno spaccato del “dietro le quinte” e svelando le strutture e le decisioni che hanno portato alla creazione di un'opera. Altri, invece, preferiscono custodirlo gelosamente, poiché vedono nel processo creativo una componente talmente personale che, rivelandola, rischierebbero di perdere parte della magia e del mistero che vogliono infondere nella loro musica. È come se l'atto stesso della creazione avesse bisogno di rimanere un segreto per mantenere intatta la sua purezza. 

Per me, il processo creativo è qualcosa di molto intimo, quasi sacro. Rientro quindi nella seconda categoria (di cui sopra) e preferisco mantenerlo privato, permettendo all'opera finita di parlare da sola. Tuttavia, nelle note di un album, mi piace condividere alcune riflessioni tecniche, come l'uso di particolari regole competitive. In questo modo offro uno sguardo più analitico, lasciando comunque che il mistero creativo rimanga intatto. 

Per fare un esempio, il mio ultimo album con Smiltzo (https://www.zenapolae.com/zen295) è ispirato al quadrato Sator (noto anche come quadrato magico), un'iscrizione paleocristiana rinvenuta in diversi luoghi d'Italia, il cui significato è ancora oggi misterioso.

Nella pagina di descrizione dell'album abbiamo detto che contiene cinque tracce; ognuna di queste è una parola del quadrato, e ognuna è composta da cinque ambienti sonori, che sono le lettere che compongono la parola stessa. Ogni lettera ha il suo contenuto melodico e armonico.

Abbiamo quindi spiegato qualcosa del processo creativo, alcune delle regole compositive ma senza entrare troppo nel dettaglio. Ad esempio, abbiamo evitato di spiegare il legame che ci siamo imposti tra intervalli sonori e lettere o tra uso di armonia diretta e negativa.

DEISON: Per quanto mi riguarda non ho mai nascosto il mio processo creativo, anzi lo condivido e cerco di sfidarlo in continuazione cercando sempre nuove possibilità. La ripetizione non mi piace e cerco di mettermi in gioco il più possibile: da qui derivano le mie numerose collaborazioni che tendono a cercare sempre nuovi metodi, nuove strade per intraprendere direzioni inaspettate e stupirmi con soluzioni mai contemplate. Solitamente la materia sonora di cui ci occupiamo è di per sé instabile e delicata e la mettiamo sempre in discussione, creando e distruggendo in un processo continuo. Questo, per me, significa sperimentare. 


CIULLINI: La mia curiosità nell'esplorazione dell'universo dei suoni è direttamente proporzionale al tempo che passa. Più avanzo negli anni e più cresce la mia voglia di conoscere e sperimentare. L'incontro con opere e autori equivale a disegnare nuove e più ampie parti di una cartografia sonora, anche se so essere senza limiti. Se poi i lavori di un autore mi colpiscono particolarmente allora approfondisco la ricerca ascoltandone altri. Spesso ancora non basta e ricerco, se esiste, il quadro di riferimento, la visione che ha ispirato il lavoro. Quindi la mia attenzione è un po’ più laterale rispetto al processo creativo. 

Di questo aspetto - soprattutto quando dopo una sosta di trent’anni ho ripreso a lavorare con i suoni - mi ha interessato in primo luogo la parte strettamente tecnica, attraverso quali macchine si è arrivati a quel suono finale. Una volta conosciuta la visione ispiratrice e i mezzi tecnici adoperati il processo creativo sembra quasi scaturire per semplice somma. Credo che ogni musicista scelga e si identifichi con i timbri del suo strumento. Così anche noi "alchimisti di suoni" non ci sottraiamo a questa implicita legge e quindi mostriamo noi stessi attraverso i timbri/suoni di determinate macchine e processi di elaborazione. 

Personalmente, non ho nessuna difficoltà a parlare del percorso creativo che mi porta a realizzare un lavoro.

 

LG: Approfondiamo ancora questo argomento, provando a raccontare come nasce un'opera musicale, prima nella nostra mente e poi in studio.

BECUZZI: Dividerei il processo creativo in tre fasi. Una prima fase nella quale necessito di trovare un tema da seguire. Una seconda fase nella quale definisco il linguaggio, lo stile, il suono in maniera che siano il più possibile adeguati a creare il clima nel quale si svilupperà la narrazione musicale. Una terza ed ultima fase nella quale mi concentro sulle relazioni tra espressione e forma, costruendo fattivamente, uno dopo l’altro, i brani che andranno a comporre il lavoro finito.

CIULLINI: Per quel che mi riguarda non ho un modus operandi codificato. Spesso, comunque, la prima cosa che si forma nella testa è una immagine/paesaggio/situazione. Per esempio, nella "trilogia del disastro" lo scenario è stato quello distopico dello sgretolarsi progressivo della condizione umana, intrappolata in una babele di linguaggi tossici, ipnotizzata da seducenti quanto falsi miti.  Una spirale mortale di desiderio di consenso spettacolar-mediatico. Procedendo su quella linea ho elaborato suoni che fossero l'ambiente/la cornice all'interno della quale far muovere l’ascoltatore. 

Questo processo è elementare ma non privo di rischi. Infatti, il pericolo di fare un "disegnino" banalmente illustrativo è sempre in agguato. In alternativa posso procedere creando suoni slegati da ogni contesto e poi a posteriori vedere verso quale scenario mi abbiano condotto. Nel mix finale non faccio grande uso di effetti. Lavoro invece molto all’origine, cioè alla generazione del suono, alla sua struttura e al suo timbro. 

Spesso un singolo suono è una creatura composita, un Frankenstein sonoro formato da campioni di suoni ed effetti diversi già pronti all'uso senza ulteriori manipolazioni. All'interno di questo processo creativo programmi, campionatori ed effetti si mescolano senza regole. Non possiedo nessuna macchina dotata di voce propria, cioè, generatrice di suoni attinti da una sua biblioteca. È estremamente faticoso ma preferisco che il timbro del suono nasca nella mia testa e poi successivamente io lo costruisca piuttosto che cercarlo nei timbri già fatti di una macchina. È una sorta di "artigianato sonoro".

BOCCI: Alcuni artisti vedono la musica quasi come un flusso che scorre libero mentre altri sentono una struttura più definita, con le sue regole interne già tracciate.

Nella mente, la mia opera musicale parte quasi sempre da un'intuizione embrionale guidata da uno stato d’animo, da un’immagine o da un’esperienza personale. È anche vero che, spesso, le influenze e le ispirazioni sono presenti solo a livello subliminale e il compito dell'artista è riconoscerle e incanalarle.

Quando passo poi alla composizione in studio (se vogliamo parafrasare, quando passo a dare forma alla creta) il mio processo resta abbastanza libero, per non dire anarchico. È vero che spesso stabilisco regole e linee guida precise per la composizione prima ancora di entrare in studio ma sempre con la libertà di non seguirle. Indubbiamente mi piace avere una struttura solida su cui lavorare perché mi permette di esplorare con più consapevolezza ma spesso il lato più emotivo prende il sopravvento. A quel punto, mi lascio trasportare dalla musica stessa e dal processo creativo stesso, permettendo che le regole iniziali si dissolvano in un flusso più spontaneo e sentimentale.

Per alcuni album è capitato che le regole fossero già imposte rigidamente in partenza. Ad esempio, per Instruments (https://cristianobocci.bandcamp.com/album/instruments) mi sono imposto che ogni brano si basasse solo sulle trasformazioni audio di registrazioni di uno specifico strumento. Ma chiaramente all’interno di ogni brano ogni tipo di modifica e/o di live electronics erano ben accetti.

DEISON: Ultimamente lavoro molto per assonanze per cui ho ben chiaro in testa i suoni che voglio ricreare e nella prima fase di ricerca sonora tendo ad immagazzinare moltissimi suoni e bozze e da qui immaginare incastri, tasselli, sovrapposizioni. Poi, traducendo tutto in pratica, mi confronto con limiti tecnici, errori, casualità che lascio comunque fluire nel mio percorso compositivo.
Per anni, soprattutto all’inizio, utilizzavo molto il metodo del loop, il campionamento fatto prima con i nastri e poi con il campionatore e altri strumenti: le combinazioni e gli incastri di questi suoni ripetuti erano le basi delle mie tracce. 

A volte invece per alcuni progetti mi pongo delle regole, per esempio usare solo determinati strumenti oppure utilizzare soltanto determinate fonti sonore. Insomma, cerco di rimescolare gli input per determinare nuove possibilità. Ad esempio, nell’ultimo lavoro, realizzato in collaborazione con i fratelli Giancarlo e Massimo Toniutti (Due Scritti Imperfetti, 13/Silentes) avendo deciso di non suonare alcuno strumento elettronico abbiamo dapprima teorizzato la natura dei suoni da utilizzare, discusso riguardo alle loro relazioni e al loro impiego ogni volta in maniera specifica e dettagliata. Successivamente abbiamo ricercato le infinite sorgenti acustiche che abbiamo registrato, articolato e disposto nell’ambiente. 

Un processo, questo, che mi ha permesso di scoprire un lato diverso della composizione, dall’approccio teorico al suono, alla sua articolazione meticolosa e maniacale in una costruzione sempre più complessa.

 

 
 

LG: Ho sempre pensato che dietro ad un disco di cui siamo autori (e di cui forse siamo anche orgogliosi di aver realizzato) esista un altro disco, quello che immaginavamo prima di registrare la prima nota. Ed è probabile che ad un ipotetico confronto le due opere risultino anche differenti.

BECUZZI: Io cerco da sempre di ridurre la distanza tra opera immaginata e opera realizzata. Devo dire che negli anni questo gap si è progressivamente ridotto fino a ridursi a misure infinitesimali. Potete definirmi maniaco del controllo ma per me questo è un indiscutibile successo.

BOCCI: Questa frase esprime una verità che molti artisti conoscono bene: la discrepanza tra l'idea originaria e il risultato finale. Creare un'opera, come un disco, è un processo che non può essere interamente previsto o controllato. Quando l'idea nasce nella mente essa è fluida, perfetta nella sua purezza astratta. Tuttavia, dal momento in cui si inizia a tradurla in realtà - attraverso gli strumenti, le tecniche di registrazione, e persino i limiti delle proprie capacità - qualcosa inevitabilmente cambia.

L’“altro disco”, quello immaginato, rappresenta il sogno dell’artista, la visione ideale. È la versione dell’opera non ancora vincolata dalle sfide del mondo reale, un riflesso della massima espressione creativa. Spesso, l’artista potrebbe idealizzare questa versione, ritenendola forse superiore a quella che alla fine prende vita in studio. Tuttavia, è proprio questo contrasto tra l'ideale e il reale che rende il processo creativo così affascinante. Ogni scelta, ogni compromesso tecnico o emotivo, ogni imprevisto contribuisce a modellare il lavoro in una direzione nuova, spesso inaspettata.

Il fatto che l’opera immaginata e quella realizzata possano risultare differenti non è necessariamente una delusione; anzi, è una caratteristica intrinseca del processo creativo. L'arte, in questo senso, è viva, si trasforma e prende strade che nemmeno l’artista poteva prevedere. E se da un lato può esserci una leggera nostalgia per quel disco immaginato, dall’altro c’è l’orgoglio di aver realizzato qualcosa di tangibile, con tutte le sue sfumature uniche e irripetibili.

Nella mia esperienza il caso più eclatante è stato forse Beyond the Dark Zones, edito da USG  (https://unexplainedsoundsgroup.bandcamp.com/album/beyond-the-dark-zones). Ho iniziato a lavorare a questo album con l’idea di fare un album di fuga da una situazione musicale che mi stava stretta e che mi stava deludendo. Ho iniziato a lavorarci con la speranza che mi avrebbe aiutato a crearmi nuovi stimoli anche se, in caso contrario, non avevo paura a considerarlo l’album di addio.

Nella mia testa c’era l’idea di un album tra il dark ambient e il noise, con punte industrial. Avevo in mente di trasporre in musica tutto il mio malessere del periodo. E avevo già in mente di utilizzare tutta una serie di macchinari, di effetti e di voci registrate che andavano ad evidenziare questo malessere.

Il primo brano che creai si intitolava proprio The Dark Zone (ed ha ancora questo titolo nell’album) e nella prima versione c’era una traccia di chitarra suonata con e-bow e processata con dei pedali della serie Moogerfooger insieme ad una traccia con dei bassi synth. Successivamente, un po’ per scherzo, aggiunsi delle registrazioni di tromba e flicorno che mi aveva fornito un mio amico e sentendo come suonava il tutto cominciai a programmarci sopra una batteria elettronica molto jazzy. Alla fine, si era creato un ottimo equilibrio tra le prime due tracce dark ed i fiati e la batteria (a cui avevo aggiunto anche una chitarra pulita) che riportava il brano ad un dark jazz molto contaminato dall’elettroacustica. Il risultato mi piacque così tanto che decisi di continuare in questo stile per comporre gli altri brani dell’album, quasi dimenticandomi le intenzioni iniziali. E forse è stata anche una scelta più sensata allo scopo dell’album perché in questo modo ho recuperato un mio passato da jazzista anche se inquadrato nel mio presente da sound designer.

CIULLINI: Raramente i due profili - progetto e realizzazione - combaciano del tutto. Ovviamente lo sforzo è quello di essere il più aderenti possibile al progetto iniziale. Però poi, almeno per quel che mi riguarda, sono possibili slittamenti successivi. In questo senso faccio come si fa col vino: lo si infiasca dalla damigiana e lo si lascia riposare un po’ prima di berlo. Succede così, soprattutto per lavori che stazionano qualche tempo prima della pubblicazione, che determinati suoni non si incastrino più bene nell'insieme e quindi debbano essere sostituiti. C’è la possibilità però che, muovendo un mattone, parte della costruzione finisca per franare ma sono i rischi del mestiere. 

Guardando ai lavori pubblicati credo di esser stato abbastanza fedele ai progetti iniziali. Farei qui una notazione auto-critica a proposito dello spettro sonoro praticato. Costruendo i suoni proiettiamo automaticamente fuori di noi uno scenario interiore. In questo processo, dai miei suoni sono quasi assenti gli estremi. Ultra-alti e bassi profondi si incontrano raramente. Quindi più che di difformità di sovrapposizione fra progetto e realizzazione parlerei, per quel che mi riguarda, di una certa vicinanza fra i suoni.  

DEISON: Spesso, quando inizio un disco finisco per averne almeno altri due (quasi) finiti; poi, in realtà questo non succede perché li smembro e li ricompongo collocando le idee in altri contesti. Ognuna prende una propria strada diventando cosa assai diversa rispetto all’inizio. A volte succede invece che registro e completo dei dischi che non usciranno mai e rimangono lì a prendere polvere. Non sempre mi interessa pubblicare ciò che registro. La sfida più interessante è quella della collaborazione perché non è detto che il risultato sia la somma dei due soggetti in azione o ciò che l’immaginazione potrebbe pensare; piuttosto, succede che le strutture subiscano delle ramificazioni che terminano fuori rotta, venendo impiegate in modo inaspettato.
Ne ho da poco terminata una, si tratta di un lavoro che uscirà il prossimo anno e che ha avuto una genesi lunghissima, il cui sviluppo nell’arco di quattro anni ha letteralmente invertito le premesse arrivando ad una inattesa e per me sorprendente soluzione finale.

 

 


LG: Raccontare una storia ipotetica e alternativa rispetto agli eventi reali è un esercizio che nella narrativa è conosciuto come ucronìa. Alcuni si chiedono cosa sarebbe accaduto se i Beatles non si fossero sciolti, ad esempio, immaginando scenari musicali molto diversi da quello attuale. Modificare il corso di alcuni eventi epocali in ambito musicale davvero avrebbe portato a cambiamenti così radicali? E che dire del nostro personale percorso musicale? Lo lasceremmo intatto oppure cederemmo alla tentazione di limare (se non ripudiare) determinate uscite?

BECUZZI: Le ucronie sono esercizi ipotetici affascinanti ma le risposte rispetto alle conseguenze sono davvero impossibili da dare. Come sappiamo, c’è chi sostiene che un battito d’ali di farfalla in più o in meno potrebbe cambiare il corso della storia. Chissà … Rispetto alla mia produzione, certo, la tentazione di cancellarne, potendo, una parte (piccola, eh …) è forte. Credo che per qualsiasi autore sia così. Ma alla fine la damnatio memoriae non serve a niente e bisogna cercare di accettare tutto, anche e soprattutto se si è soddisfatti del “luogo” al quale questo percorso ci ha condotti.  

BOCCI: L'ucronìa, come strumento narrativo, la trovo intrigante perché ci permette di riscrivere il passato e di immaginare percorsi alternativi. Nel contesto musicale, immaginare cosa sarebbe accaduto se i Beatles non si fossero sciolti o se altri eventi chiave fossero andati diversamente, ci permette di riflettere sul ruolo cruciale del tempo e delle circostanze nella creazione artistica. Tuttavia, credo che proprio quegli eventi, anche quelli più difficili o apparentemente sfortunati, abbiano contribuito a dare forma non solo alla musica, ma anche al percorso personale di ogni artista. Mi chiedo fino a che punto modificare il corso degli eventi avrebbe cambiato radicalmente la musica che conosciamo oggi. L'arte, in tutte le sue forme, è il risultato di un dialogo continuo tra il contesto storico, le scelte personali e, a volte, pure coincidenze.

Nel mio percorso musicale c'è sempre stato un rapporto molto stretto tra regole tecniche e libera espressione. Anche se potrei essere tentato di rivedere alcune decisioni passate la verità è che ogni opera è figlia del suo tempo e del mio stato d'animo in quel preciso momento. Ogni uscita, ogni scelta creativa, anche quelle che oggi vedrei sotto una luce diversa, fanno parte di un'evoluzione necessaria. E sono dei fantastici ricordi di determinati periodi!

Tornare indietro per correggere o “limare” certi lavori significherebbe in qualche modo snaturare la mia evoluzione come artista. Quelle decisioni, anche se oggi mi sembrano imperfette, erano necessarie per portarmi dove sono ora. Quindi, più che tornare indietro a limare, preferisco vedere ogni fase come un passo essenziale verso ciò che sono diventato musicalmente.

Alla fine, credo che il vero valore stia nell'accettare il percorso così com'è, con tutte le sue svolte inaspettate. L'arte è crescita e cambiamento, e anche gli errori o le scelte che col senno di poi sembrano sbagliate fanno parte di un processo più ampio e complesso. Quindi no, non cambierei nulla del mio passato artistico. Ogni uscita, ogni sperimentazione, mi ha insegnato qualcosa e mi ha spinto a cercare nuove direzioni, mantenendo viva la fiamma della creatività.

CIULLINI: Sinceramente non credo di poter ripudiare nessuno dei lavori fatti finora. Come detto, possono essere più o meno aderenti alla visione iniziale o più o meno con difetti ma la sostanza funziona. Mi piacerebbe invece aprire un capitolo in merito ai progetti "vorrei, ma non ho il coraggio di". Sono sempre stato molto attratto dal ritmo, in particolare dai timbri di percussioni etniche e/o elettroniche. Non dalla batteria ma piuttosto da tamburi africani o giapponesi. In sostanza la voce di strumenti ancestrali mi affascina anche perché si ricollega bene ad uno dei miei temi favoriti e cioè la barbarie nella attuale società. La copresenza di timbri etno-acustici con timbri tecno-elettronici mi attrae fortemente. Ma, anche qui, il pericolo di cadere nel manierismo d'accademia o in una strizzatina d'occhio alla techno mi fa procedere con moltissima cautela. 

DEISON: Mi capita raramente di riascoltare i miei vecchi lavori e quando succede per esaminare il materiale per qualche ristampa o per digitalizzarlo naturalmente mi ritrovo catapultato in un mondo sonoro che ha più di 25 anni e che è totalmente diverso da quello attuale, mi affiorano delle istantanee, delle fotografie di alcuni momenti di quel periodo in cui registravo spesso con mezzi di fortuna o con soluzioni improvvisate….posso riconoscere ancora dei suoni, le loro origini e poi le loro manipolazioni. A volte il risultato è decisamente naïf e approssimativo ma lo giustifico e a volte lo apprezzo per i limiti e per una certa incoscienza. 

Non ripudio niente, anche le registrazioni più ingenue fanno parte del mio bagaglio sonoro, sono sempre io in un percorso di continuità, fatto anche di contraddizioni. …posso magari solo rivedere la quantità, alcune uscite potevo dilatarle nel tempo ma non nascondo niente. Ho iniziato il mio percorso solista dopo alcuni anni di collaborazione suonando dal vivo e incidendo dischi con Teho Teardo nei suoi Meathead; ecco, mi chiedo solo se quell’avventura non fosse terminata cosa sarebbe successo, erano anni di grande fermento, possibilità e occasioni. Chissà!

 

 
 

LG: Altre ucronie: concentriamoci sulle cocenti delusioni che artisti e band che abbiamo amato (e forse amiamo ancora) ci hanno inflitto almeno una volta. Il disco che non avremmo mai voluto ascoltare del nostro autore o band di culto, quello che vorremmo cancellare dalla sua discografia. Oppure, riscrivere.

BECUZZI: La regola è che prima o poi la delusione arriva, è vero, e quindi mi piace più concentrarmi sul contrario, cioè quei pochi, pochissimi casi di artisti/band che reggono la prova del tempo. Il primo esempio che mi viene in mente è Michael Gira con i suoi Swans. Una carriera artistica più unica che rara, sempre a livelli alti o altissimi, con il raggiungimento, nell’ultimo decennio, di un grado di maturità davvero impressionante. Ammirazione assoluta.  

BOCCI: Ogni artista ha il suo percorso e inevitabilmente ci sono momenti in cui le aspettative non vengono soddisfatte. Alcuni dischi o progetti possono sembrare deludenti rispetto a quello che ci aspettavamo da un artista che amiamo profondamente. Tuttavia, è interessante riflettere su cosa significhi davvero voler “cancellare” o riscrivere una parte della discografia di un artista.

Secondo me, pensare di voler “cancellare” un disco dalla discografia di un artista significa non solo rimuovere un pezzo del loro percorso ma anche ignorare il contesto in cui è stato creato. In un certo senso ogni opera, anche quelle che ci sembrano meno riuscite, fa parte del viaggio artistico di chi la crea. Ogni progetto, anche quelli che non rispondono alle nostre aspettative, contribuisce a definire la carriera di un artista. È come se volessimo riscrivere la storia, ignorando che ogni fase, ogni sperimentazione, ogni “fallimento” è una tessera del puzzle complessivo. Senza nulla togliere comunque al fatto che una tale direzione artistica, che a noi suona come delusione, possa allontanarci da un determinato artista.

Di delusioni cocenti dai miei artisti preferiti ne ho avute tante. È vero che ascoltando ogni sorta di genere musicale, ad una delusione per un album non riuscitissimo di un certo artista, trovavo sempre rifugio in un altro artista, magari in un contesto completamente diverso.

Cito una delusione particolare. Ricordo che verso i 25 anni scoprii la musica di Capossela. In quel periodo vivevo e studiavo in Belgio e, sebbene ascoltassi anche i Channel Zero (band belga rock-metal) trovai in Capossela una malinconia che in un certo senso mi riavvicinava a casa (il fatto che proprio in Belgio finii per scoprire un artista italiano è abbastanza ironico).

Negli anni successivi, ormai stabile in Italia, il mio interesse per la musica di Capossela continuava a crescere. È vero che in quel periodo ero solito suonare, anche in festival nazionali molto importanti, con dei cantautori e quindi ero più o meno indirettamente coinvolto in quel genere. Ho visto molti concerti di Capossela e trovavo interessanti anche i suoi album più sperimentali come Ovunque Proteggi (con Vincenzo Vasi al theremin e alle elettroniche). Ogni volta che usciva un suo album io lo compravo subito ed una particolare edizione limitata in vinile di Solo me la regalai come memorandum di un evento speciale nella mia vita. 

Ma l’album Rebetiko Gymnastas creò un punto di rottura verso la sua musica. Non che io odii assolutamente la musica greca ma mi suonava come un disco stucchevole e noioso e, forse, ero stanco, di alcune sue produzioni un po’ ruffiane (libri compresi). E forse proprio da quel disco iniziai ad ascoltarlo e seguirlo sempre meno. È anche vero che in quel periodo la mia “carriera” di contrabbassista al seguito dei cantautori cominciava un po’ a calare ed io ero sempre più orientato verso l’improvvisazione elettro-acustica e la ricerca nel sound design, quindi, nuovamente, anche Capossela rispecchiava un genere che mi interessava sempre meno. Magari preferivo passare le giornate ad ascoltare Barre Phillips o Arve Henriksen.

CIULLINI: Il primo esempio che mi viene in mente è Smile's OK di The Hope Blister. La band è stata attiva dal 1997 al 1999. Smile's OK è datato 1998 ed è uscito nell'ambito del progetto portato avanti dal produttore Ivo Watts-Russell con la sua etichetta 4AD. Nel panorama degli anni 80-90 la raffinatezza e l'assenza di barriere musicali che hanno caratterizzato il progetto di questa etichetta penso non abbiano eguali.Nel clima di produzioni alternative Ivo Watts-Russell invece della via maestra ruvida e rumorosa, imbocca la direzione di un suono onirico-meditativo e per questo forse ancor più dirompente. Nel progetto membri di gruppi diversi formano un collettivo sotto il nome di This Mortal Coil e danno vita in tre dischi (1984-1991): una pagina tutta in filigrana dorata della storia musicale di quegli anni e non solo. 

Dopo queste produzioni la luce della cometa 4AD sembra spegnersi e in una parabola cadente nascono The Hope Blister. L'invenzione e la raffinatezza del progetto 4AD/This Mortal Coil sembrano però perdute. Restano le rovine; un ambient/favolistico un po’ lontano dall’accendere emozioni. 

Quella è stata una delusione, un falso movimento che mi ha lasciato la bocca amara, anche se la bellezza del progetto resta intatta ancor oggi.

DEISON: Ho sempre una sorta di rispetto per chi pubblica un disco: capisco il lavoro che c’è dietro, la ricerca, le difficoltà, il tempo speso e quindi difficilmente lo boccio totalmente. Magari rimango deluso ma riconosco i meriti (passati) e nel caso di artisti particolarmente amati trovo sempre ci sia qualcosa di interessante da scovare, piccoli dettagli anche in dischi che mi lasciano indifferente con discutibili scelte stilistiche.

 

 
 

LG: In tempi diversi e lontani da quelli attuali il motto "L'immaginazione al potere" contribuì alla nascita di esperienze ideologiche e artistiche uniche e rivoluzionarie. Ora l'immaginazione è tornata nuovamente schiava, sottomessa alle logiche di mercato e di internet, e farne uso è un'attitudine carbonara.

BECUZZI: Questo è vero, tanto più se l’artista sceglie di scendere a patti con il mercato. Se invece l’artista decide di concedersi totale libertà d’immaginazione, come in linea di principio io credo sia giusto fare, beh, in questo caso il compromesso con il mercato si limita a ciò che è sempre stato, cioè, trovare un editore adeguato e poi un pubblico, poco o tanto che sia, che apprezzi e segua l’operato. Che queste due ultime condizioni siano oggi più difficili da praticare è vero ed è anche un po’ paradossale se si pensa agli strumenti comunicativi offerti dal web e, più in generale, dalle nuove tecnologie.

BOCCI: È vero che il motto “L'immaginazione al potere” ha avuto un impatto significativo in epoche passate, ispirando movimenti artistici e ideologici che hanno cercato di superare i limiti imposti dalla società e dal mercato. L'immaginazione era vista come una forza liberatrice, capace di rompere schemi e sfidare le convenzioni, capace di aprire nuove strade e di trasformare la società attraverso esperienze artistiche e ideologiche radicali.

Oggi, è comprensibile percepire che l'immaginazione possa sembrare più vincolata dalle logiche di mercato e dalle dinamiche di internet. L'industria culturale e il mondo digitale spesso esercitano una pressione costante per conformarsi a determinati standard e trend, riducendo lo spazio per l'espressione libera e originale. In questo contesto è facile percepire l'immaginazione come una risorsa 'sottomessa' alle esigenze di visibilità e di consumo. Non parliamo poi dello sviluppo in “ambito creativo” delle IA, che rischia di rappresentare sempre di più una semplificazione del fare artistico.

Tuttavia, credo che l'immaginazione non sia mai completamente sottomessa. Anche in un contesto dominato dalle logiche di mercato, ci sono ancora spazi per la creatività autentica e per esperienze artistiche uniche. L'importante è trovare modi per navigare queste restrizioni e utilizzare le risorse disponibili per esprimere idee innovative e personali. Le restrizioni e le pressioni possono anche fungere da catalizzatori per una creatività più profonda e autentica.

Il potere dell'immaginazione risiede nella nostra capacità di trasformare le sfide in opportunità, di trovare nuove vie di espressione e di mantenere viva la nostra visione artistica, anche quando sembra che il mondo intorno a noi sia sempre più omologato.

In questo senso, l'immaginazione può essere un atto di resistenza e di ribellione, una dichiarazione di indipendenza dalle norme e dalle aspettative imposte. Non è tanto una questione di quanto spazio abbiamo per immaginare ma di come scegliamo di utilizzare quello spazio e di come continuiamo a spingere i confini della nostra creatività, nonostante le pressioni esterne.

Il vero potere dell'immaginazione risiede nella nostra capacità di trasformare le limitazioni in opportunità. Anche in un'era dominata da logiche di mercato e di internet, possiamo scegliere di utilizzare le risorse disponibili per creare opere che siano profondamente personali e originali. Questo richiede non solo talento e determinazione, ma anche una consapevolezza critica delle dinamiche in gioco e una volontà di resistere alle pressioni esterne.

CIULLINI: Bei ricordi. Sono nato nel 1952 e quello scenario l'ho vissuto molto consapevolmente. A suo tempo lo slogan di Herbert Marcuse sintetizzò bene il desiderio di una visione della vita più creativa e meno consumistica. Fu una delle bandiere dei movimenti studenteschi del '68 dando vita ad una stagione fertile di novità in tutti i campi. 

A guardare a quegli anni, alla loro potente spinta creativa, il tempo che stiamo vivendo appare come il suo esatto contrario. Le logiche di mercato sono prepotentemente tornate a dominare la scena. Un uso perverso ed esibizionista di Internet ha creato l'assuefazione a stili di vita nei quali la regola è conformarsi alla corrente dominante. L'immaginazione e la conseguente capacità critico/creativa sono esiliate a favore di modelli da seguire e riprodurre bovinamente spesso infischiandosene degli aspetti morali.
Purtroppo, credo che quanto detto fino a qui sul tema sia applicabile anche all'area della cosiddetta musica "altra". Quante delle etichette e dei musicisti oggi in attività si conformano alla corrente dominante, cioè ad un determinato stile anche se si tratta di suoni non-commerciali? Perché sembra prevalere il desiderio di essere "in linea" piuttosto che "fuori dal coro"?  La quantità di musicisti che operano a tutte le latitudini del globo è praticamente incalcolabile ma paradossalmente, facilmente inscrivibile in aree dagli stilemi predefiniti. Con un po' di fantasia si potrebbe addirittura disegnare un atlante sonoro del mondo dove, con l'elasticità del caso e giusto per fare un esempio, si potrebbe spaziare dal gotico dominante verso est, all'ambient prevalente verso nord. Quindi, alla fine, la creatività è sottomessa al mix genere/moda? Per certi versi direi proprio di sì. 

Se questo appiattimento è il primo dei coni d'ombra che si proiettano sulla sperimentazione sonora penso che il secondo sia inevitabilmente legato all'atteggiamento verso ciò che sta intorno al proprio lavoro. Tradotto: anche in queste aree, teoricamente punta di diamante della ricerca musicale, valgono criteri quali copie vendute e notorietà? Parametri che invece sono tipici della musica commerciale? Ognuno ha il diritto di pensare come vuole ma credo che puntare alla notorietà in un panorama globalmente sovraffollato di produzioni sia veramente illusorio. Anche considerando il potente aiuto che in questo senso i cosiddetti social possono offrire, emergere dal mare magnum della musica "altra" mi sembra un’impresa titanica. E poi, è questo che ha importanza alla fine? O piuttosto è più corretto infischiarsene e veicolare le proprie produzioni per la semplice soddisfazione di far conoscere ad altri il proprio lavoro? Questo tema, connesso al ruolo e all'importanza del mercato, è un punto su cui, negli ultimi tempi, sto rimuginando parecchio. Mi chiedo se non sia il caso di riprendere ad utilizzare modalità alternative quali l'auto-produzione e la diffusione della musica digitale al di fuori dalle grandi piattaforme. 

Fra mercato fisico e mercato digitale esiste una notevole differenza. Il mercato digitale, soprattutto attraverso il free download, offre una platea potenziale ben più vasta di quella legata al numero delle persone che hanno acquistato il disco. Anche nell'ipotesi di download a pagamento, la facilità di diffusione è qualitativamente e quantitativamente superiore. Senza contare la possibilità di formare compilation digitali personalizzate senza il peso di un intero lavoro che magari può interessare solo parzialmente. Inoltre, una netlabel può operare quasi in autosufficienza anche da Marte, a differenza delle etichette fisiche per forza di cose legate a servizi e procedimenti materiali sul territorio. Negli anni ‘80 sull'onda della controcultura post-punk vendevo via posta le mie audio-cassette con fanzine in Italia e in Europa. Oggi la rete postale è sostituita da Internet ma il grado di libertà resta invariato. In sostanza, è possibile non piegarsi al mainstream dominato da logiche di moda/mercato ma segnare una propria autonomia sonoro-relazionale.

Terzo cono d'ombra: "in cauda venenum". Parliamo dell'impatto sui media. Lasciando perdere l'esperienza fatta 40 anni fa (che pure ha dato ottimi risultati) oggi non ho esperienza e quindi onestamente non sono in grado di capire quanto un lavoro DIY possa trovare attenzione e spazio nei media. Mi sembra che la carta stampata al massimo dedichi una rubrica alla musica "altra". Webzines e blog invece hanno uno sguardo più alla radice di certi ambienti sonori riuscendo così a dare una informazione estremamente più capillare/attuale.


DEISON: Ecco, hai detto bene citando due parole fondamentali - immaginazione ed esperienza - che oggi giorno mancano decisamente sia nel mondo dell’ascolto che in quello della creazione della musica. Mi sento spesso distante dal mondo musicale odierno: tutto è compresso, appiattito in ascolti occasionali, superficiali, ad una velocità tale da impedire approfondimenti, dubbi, ripescaggi. Un disco vale solo un ascolto distratto (e poi quasi sembra non esistere più) sminuito da riproduzioni di pessima qualità. 

Non ci è permesso immaginare perché tutto è già a disposizione. La musica e - anche i sottogeneri di cui ci occupiamo - ormai è inquinata da logiche di profitto, trend e immagine; manca decisamente quel senso di genuinità, spontaneità e determinazione. 

Pochissimi rischiano e cambiano il paradigma che risulta essere sempre la stessa formula ripetuta e imitata senza personalità. Forse con l’età sono divenuto molto più esigente per cui ho bisogno di stupirmi veramente; succede di rado ma talvolta trovo ancora alcuni artisti che trasmettono questo senso di libertà e di immaginazione.

LG: Grazie.

 


https://deison.bandcamp.com/

https://soundcloud.com/danieleciullini

https://cristianobocci.bandcamp.com/

https://gianlucabecuzzi.bandcamp.com/














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