SVART1: IL FLUIRE MUTEVOLE DELL'IRRAZIONALE
Svart1 è il progetto di Raimondo Gaviano, esploratore delle inquietudini umane attraverso una proposta musicale scura e radicale, condotta disco dopo disco seguendo una strada del tutto personale: elementi interculturali su anarchie post-industriali, spettrali apparizioni neo-gotiche, dolenti droni che invitano a meditare sulla caducità dell’esistenza.
LG: Il tuo ultimo lavoro di imminente uscita conferma la predilezione per titoli dal forte impatto drammatico. Sarebbe corretto affermare che una considerevole parte della tua produzione si concentra sull’analisi della mortalità umana?
RG: Prima di rispondere alle tue domande vorrei ringraziarti sia per avermi invitato ma soprattutto per la qualità mai banale delle tue domande a cui spero di poter rispondere in maniera adeguata.
Ho sempre voluto dare un nome che fosse da un lato abbastanza criptico ma nel contempo anche netto alle mie trilogie e quindi a partire da “Non tutto ciò che tace è morto” passando per la trilogia di “Satanische Helden” e per l'ultima di “Frozen Chants” i titoli sono sempre stati ben centrati sul concept degli album mentre i titoli delle singole tracce sono quasi sempre stati limitati a dei numeri ed in questo risulta ancora più chiara l'importanza del titolo generale dell'opera.
Anche “Apriti al buio e condivilo” e “Ich Verachte den Tod, Ich lache mich zu Tode” sono ben inseribili nel passaggio tra il periodo “satanico” e quello “angelico” di Frozen Chants ma per rientrare nello specifico non mi sono mai posto la domanda se l'Archè di ogni mia produzione fosse analizzare la mortalità umana o il mio rapporto con la morte.
Probabilmente è più confacente trovare un dialogo con il ciclo della vita che implica necessariamente un rapportarsi anche con la morte dato che non c’è una fine senza un inizio.
In ogni cosa che finisce c’è l’inizio di qualcos’altro e quindi la morte non è per me in opposizione alla vita, non c’è scontro in questo, come invece si ritiene, specialmente nel mondo occidentale.
Per me la morte è complementare alla nascita e questo lo vedo ogni qualvolta mi sposto dalla città per immergermi in mezzo alla natura dove quell'abbrivio che si trova quando si è soli ti fa davvero intuire il limite. Dove c’è la nascita c’è anche la morte e la vita include tutto questo: per me è eterna, tutti i cicli compongono la vita ed appartengono ad essa ed è bello osservarla sia nella nascita di una vita che nella sua morte.
Quindi in definitiva ti direi che esiste una linea di fondo, sia diacronica sia sincronica, capace di accomunare i vari lavori.
LG: Esiste una correlazione tra tribalismo ritmico, pulsione elettronica e disfacimento?
RG: Non saprei risponderti in termini generali ma nel mio piccolo sicuramente sì. Ad iniziare (senza voler approfondire gli anni precedenti di cui sono ben poco a conoscenza) da Bryn Jones e dal suo progetto più conosciuto (Muslimgauze) il rapporto tra tribalismo elettronico e rottura ideologica e strutturale è ben evidente.
Inserire un loop di Sakamoto nel brano “Flajelata” del 1986 che pian piano diventa sempre più saturo e si innesta su tambureggianti ritmi medio-orientali è proprio quel genere di esempi che ben spiegano il rapporto di cui tu parli: da un lato esistono quelle sonorità cupe e salmodianti tipiche del medio-oriente inserite in un contesto raw elettronico che implicano anche una decomposizione ideologica legata, nel caso di Muslimgauze, alla situazione Palestinese.
Nel mio caso la trilogia di “Satanische Helden” è proprio incentrata su questa correlazione.
Come è risaputo Bryn non usciva praticamente mai dal suo piccolo studio che si era ricavato nell'appartamento dei genitori e da li “rubava” dalla radio inglese tutti i samples che poi si ritrovano nelle sue sterminate produzioni della Staalplaat. Per la trilogia “satanica” (“Belet ili” e “Ardat lili” oltre al già citato “Satanische Helden”) ho concretamente saccheggiato Muslimgauze rielaborandolo con alcuni vsti e utilizzando solamente il Minibrute per le parti che necessitavo. In questo senso vedo una ulteriore correlazione rispetto a ciò di cui tu parli soprattutto per quanto riguarda il degrado digitale sonoro che ho voluto consciamente ottenere saturando oltremodo le varie tracce.
LG: Apriti al buio e condividilo è un’opera densa e sinistra eppure irresistibilmente magnetica all’ascolto: come è nata? Puoi interpretare per noi l’enigmatica illustrazione in copertina?
RG: E' particolare che ti abbia intrigato così tanto questo lavoro. Nasce come punto di fuga dal periodo che come ho avuto già modo di dirti definisco satanico e la trilogia di “Frozen Chants”.
Tutto ha avuto origine da un interesse ed una volontà di inserire delle ritmiche che non fossero quelle sature, distorte e spezzate dei lavori precedenti. Inoltre stavo iniziando a lavorare e a prendere coscienza delle potenzialità del Minibrute e quindi ad arpeggiare i suoi bassi selvaggi. Il lavoro è uscito originariamente in CD per la label torinese OVUNQVE e gode anche di tre remix notevoli (particolarmente caro quello di Svreca che con tre suoni ha realizzato una traccia davvero notevole) e mi piace molto il risultato finale anche perchè questo melting pot di Dark Ambient cupo con bassi e kick di derivazione techno mi ha sempre intrigato (sin dal 2010 con i miei primi lavori in digitale remixati magistralmente da Claudio PRC).
L'essenza del concept sta sostanzialmente nell'accettare il proprio disagio esistenziale e di farselo diventare amico. Tutte le tracce vanno verso quella direzione e ho voluto vedere il tutto come il perdersi di Gordon Pym di Poe tra le nebbie (concetto che si esplicita anche nell'unico visual che accompagna il lavoro). L'illustrazione del lavoro è di Giada Mantione che lavorò su una mia suggestione e sulla divinita' romana Cerere che nella mia trasposizione ha una fascia nera che le nasconde la possibilità di vedere, quasi ad indicare l'impossibilità di poter essere ciò per cui a Roma veniva festeggiata (Cerere era la divinità materna della terra e della fertilità, nume tutelare dei raccolti, ma anche dea della nascita).
LG: Le due rose di Costantinopoli è un lavoro nel quale emerge il tuo interesse per la cultura medio-orientale e per il suo ruolo storico di telaio in cui arte, religione e filosofia di popoli diversi si intrecciavano.
RG: In realta l’interesse per la cultura del vicino oriente e’ una caratteristica costante dei miei lavori sia nella struttura musicale e compositiva ma anche nelle questioni ideologiche e filosofiche oltre che storiche.
Anche in questo caso Muslimgauze mi ha sempre affascinato anche se lui non è mai andato oltre l’appoggio alla questione palestinese mentre a me intriga la visione “estrema” dei musulmani ma anche il volersi distanziare da un mondo occidentale sempre piu’ legato a stilemi che non riesco a non rifiutare.
In questo caso la musica sciita, con le sue melodie, i suoi canti e le sue improvvisazioni mi ha sempre interessato, specialmente per la sua capacità di saper generare nell'ascoltatore un rapimento estatico e per la capacita’ di creare dei suoni modali formati da sette note e scisse in intervalli non finiti che cerco sempre di inserire nelle mie composizioni per ricreare un fluire libero, privo delle strutturazioni e delle griglie per meglio riflettere l'indefinito, il mutevole, l'irrazionale.
LG: Con un’attività live costante nel tempo e un gran numero di partecipazioni e collaborazioni si può affermare che hai una certa consapevolezza della realtà musicale del nostro paese: come descriveresti l’attuale scena underground italiana? Quali sono le sue potenzialità e quali debolezze andrebbero evidenziate e corrette?
RG: Questa domanda è piuttosto intrigante in quanto bisogna, dal mio punto di vista, capire cosa significa nel 2021 essere underground.
Se vuoi una risposta immediata non penso esista una scena underground oggi.
Troppo è cambiato in questi ultimi anni sia nella produzione sia nella distribuzione della musica ma soprattutto quasi sempre manca il supporto ideologico da legare al termine underground che era invece alla base della musica prima dell'avvento della cosiddetta musica liquida e della possibilità di poter facilmente usufruire delle sue immediate possibilità compositive e di fruizione.
Penso ci siano ancora dei musicisti che si pavoneggiano nel definirsi underground ma poi, anticipando la tua prossima domanda, penso sia semplicemente un modo di proporsi mediato e studiato a tavolino e mi capita spesso, qui in Sardegna, di incontrare personaggi che si definiscono underground ma che dal mio punto di vista non hanno un’idea chiara del significato del termine dato che forse dovrebbero piuttosto definirsi mainstream modaiolo.
D'altrocanto ho avuto il piacere di conoscere e di aver conosciuto nel corso degli anni molti musicisti che potrei definire ancora underground per l'approccio materiale (Massimo Olla che utilizza solo ed esclusivamente degli strumenti creati da lui) oppure perchè agiscono dentro una nicchia musicale che partendo dalla fine degli anni settanta e dalla rivoluzione elettronica potrei ancora definire underground (Simon Balestrazzi, Corrado Altieri, Roberto Belli, Matter) ma di fondo non penso esista una scena underground integra ed omogenea in Italia.
LG: Viviamo in un universo indifferente, avverso, oppure esiste speranza?
RG: Viviamo in un mondo palesemente malato, ipocrita, settario ed estremamente condizionato dalla povertà economica che porta le persone a chiudersi, a scegliere il meno piuttosto che il più. Ad accettare di essere sfruttati per uno stipendio mensile, vivere nell'ipocrisia, nel “voltagabbanismo” imperante, nella distopia dell'uguaglianza totalizzante e pervasiva.
In definitiva - e questo lo vedo soprattutto nei social - si mostra la faccia piu affine a ciò che bisogna essere e a cercare comode illusioni piuttosto che interessarsi ad essere realmente. In questo consiglio sempre la lettura attenta di “Waldwanger” di Ernst Junger.
Non so di fondo dirti se esista speranza per l'umanita ma di sicuro esiste la mia speranza e questa è fatta di pochi sodali e di un continuo allontanamento da tutto ciò che ti obbliga ad essere “un qualcosa”, seguire l'onda, le mode, i gesti e le varie dinamiche create ad arte da chi comanda le nostre povertà morali ed economiche.
LG: Cos’è per te il Caos? Come lo descriveresti da un punto di vista speculativo, artistico e musicale?
RG: Vorrei che ci fosse. Un Caos immenso. Qualcosa che come ti ho risposto precedentemente si palesi non solo nella musica ma soprattutto sia di sprone per modificare gli atteggiamenti che quotidianamente ci portiamo dietro. In questo la musica è assolutamente essenziale in quanto non agendo visivamente ricrea con maggiore forza questa necessità di distaccarsi dalla banalità della nostra razionalità, dal desiderio di voler agire solo attraverso l'utilità mediata del momento.
In questo la musica è un elemento molto particolare. Se è vero (e lo è) che la melodia è armonia è anche vero che se non ti accordi non puoi fare musica e non vai d’accordo con la musica (da qui molti si professano non-musicisti) ma così facendo rompi un patto mistico e matematico.
Quando prendo il microfono e registro dei suoni sono cosciente di rompere l’equilibrio tra le note della traccia e non sto creando della musica ma interagendo sonoramente con il mio flusso del momento.
Sperimento il suono secondo la mia ricerca e mi dimentico dell’armonia: il caos che si genera è ciò che ne consegue. Per questo non mi interessa la melodia, il solfeggio in questo frangente compositivo; mi accorgo di essere in difetto e ricerco quella sensazione caotica che è, per me, una volontà ben precisa di abbandonare il consueto, la strada tracciata da secoli, la melodia finita per cercare i suoni che sono musica pur non essendo tale. In questo il caos musicale è una stonatura voluta, un passaggio essenziale: non l’indiscrimata distruzione degli equilibri ma la loro esasperazione per poterli vedere rinascere.
LG: Grazie.
RG: Grazie a te Luca.
Per approfondire:
svart1.bandcamp.com
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