A GLOOMY ALLEY: DANIELE SANTAGIULIANA

 

 

 




LG: La Cupa si pone all’interno della tua produzione come un “unicum”. Se la drone music è parte del tuo linguaggio musicale l’utilizzo esclusivo degli archi è una novità. Da dove è nata questa esigenza?


DS: Ammetto che dopo anni di ammirazione verso svariati compositori considerati “seri” rispetto a chi, come me, da ormai 17 anni, sta sulle scene per altro (rumorista, noisemaker, etc.) e viene preso come tale in maniera distratta e superficiale da molte persone, ho voluto mettermi alla prova realizzando piccoli pezzi di musica completamente “classici” nella loro presentazione.

Volevo un album autoriale e maturo, un piccolo punto fermo fuori dal tempo e dallo spazio anche delle opere del sottoscritto.

Al tempo stesso è un album completamente mio per suoni, produzione e arrangiamenti – è suonato con strumenti differenti ma rimane un lavoro che ben si amalgama al resto del percorso sonoro che sto portando avanti. Tuttavia posso capire lo spaesamento di molti all’ascolto.



LG: L’atmosfera di questo lavoro è fortemente soprannaturale, quasi spiritata: si tratta di una specifica ricerca sonora o durante la stesura ti sei lasciato anche influenzare dall’immaginario gotico extramusicale?


DS: Oh, le sessioni di registrazione per questo album sono state... isteriche e punitive, per usare dei termini che possano risultare comprensibili – in realtà sono state qualcosa di così strano da essere state davvero “spiritate e sovrannaturali” per molti aspetti...

Per catturare i rumori di fondo mi sono attrezzato di varie cose e sono uscito in piena notte (proprio per darmi fastidio, tra ansia e fotosensibilità), per le parti di violino e viola mi sono affidato ad una selezione delle parti piuttosto severa e piena di altre cose da sentire contemporaneamente, come se fossi stato nel mezzo di un happening – essendo tutti fraseggi con variazioni e simili, è stato davvero bello pur se stancante trovare delle sezioni utilizzabili in ore di “flusso di coscienza”.

L’umore perciò è decisamente legato alle sensazioni di disagio primale, il buio e tutte le cose che succedono al suo interno hanno giocato un ruolo fondamentale per dare un mood generale al disco, così come Thomas Ligotti e la pellicola “The Lighthouse” di Robert Eggers, a cui il disco è dedicato.





LG: L’utilizzo trasversale degli archi (da Stravinskij a Cale) permette di ottenere effetti e colori impossibili da ottenere con altri strumenti.


DS: Amo le composizione in drone di John Cale. Trovo che il box set “New York In The ‘60s” sia una vera e propria bibbia per chi vuole provare a capire che cosa significa spingere uno strumento o una composizione “classica” al limite. Di Cale si diceva che era arrivato a New York per diventare “famigerato”, e debbo dire che si sente come fosse intransigente, concentrato e come portasse avanti il suo studio in maniera assolutamente “pericolosa”.

Il suono degli strumenti a corda è magnifico, perché senti i differenti legni, le differenti intonazioni, le risonanze naturali che non puoi controllare più di tanto, ma puoi sfruttare a tuo vantaggio.

Sono imperfetti, unici, e perciò conferiscono al disco quel tipo di “trademark” di cui vado molto fiero.



LG: Nonostante l’evoluzione della musica elettronica degli ultimi trent’anni e la nascita di tecniche di sintesi sempre più potenti molti ricercatori oggi si stanno allontanando dal suono generato elettronicamente in favore di una strumentazione acustica. Ritieni si debba leggere questa tendenza come un parziale ritorno al contatto diretto con la sorgente sonora?


DS: Ho notato questo tipo di inversione e penso sia attribuibile almeno a due fattori: per prima cosa non ci sono progressi a livello sonoro con nuovi strumenti che non siano già sentiti, da anni ci sono migliorie, meccanismi più semplici per ottenere certe sequenze, suoni più definiti, ma sostanzialmente, sono molto simili a quelli di 30 anni fa, anche nella struttura. 

Un secondo fattore decisivo è legato al fatto che man mano che si va avanti per forza di cose si guarda anche indietro, si recuperano cose che non credevamo utilizzabili assieme al nuovo, e si prova a sposare le due cose con la buona fede e l’entusiasmo di un bambino. E i risultati che ne escono fuori, se si è bravi, possono essere molto interessanti, tanto da ricordare in certi casi una sorta di “nuova ondata” della tape loop oriented music di alcuni artisti dei mid-60s.

La gente in questo momento dovrebbe tendere l’orecchio come non fa da una decina d’anni buoni. Ci sono cose davvero notevoli lì fuori e spero di poter dare il mio contributo a questa variopinta scena. 

 


 



LG: Esistono due elementi che tornano costantemente nell’immaginario di molti autori: il caos e l’oscurità. Per alcuni tuttavia essi sono meri ornamenti a un’estetica “maledettistica” ormai posticcia. In altri casi – come il tuo – assistiamo ad uno studio attento e quasi chirurgico della dimensione umana più nascosta e ombrosa.


DS: La depressione e l’ansia sono due bestie con cui devo convivere a forza – non le uso come “posa” (anche perché annuso quel tipo di atteggiamento da miglia di distanza e mi ha sempre fatto sorridere e sentire in forte imbarazzo), ma di sicuro sono due parti di me che da sempre sto cercando di utilizzare come strumenti (non potendomele scrollare di dosso in maniera definitiva) che uso per cercare di raccontare qualcosa con la musica che suono.

Mi piace quantomeno che il mio stile sia riconoscibile da disco a disco, da disco a dipinto, da stile di scrittura a fotografie. Questo quantomeno mi rende molto felice ma non porto volontariamente questa oscurità nelle mie opere. C’è, e mi dicono gli altri, da esterni, come percepiscono quell’album. Io mi esprimo semplicemente. E, come quando dipingo, la cosa magnifica è che svuoto la mente quando suono, e non penso a niente. Certo, le ore di editing compensano in questo per grattacapi...

Io cerco semplicemente di stare bene nella mia nicchia e di sopravvivere dignitosamente prendendo nota di ciò che percepisco emotivamente. Ormai la mia visione sembra chirurgica per esperienza verso questi stati, ma non è voluta. Sono felice quantomeno che risulti genuina e sentita.


LG: La Cupa è una strada senza uscita?


DS: Un amico che rispetto molto mi ha detto che a Napoli esiste una via “Cupa”: un intricato susseguirsi di vicoletti, molti dei quali senza uscita. Ed è divertente che me lo abbia descritto a disco uscito dal momento che “La Cupa” come luogo lo immaginavo proprio così!

La cosa simpatica è che sono cresciuto in una piccola “Cupa” nel paesino in cui sono nato: c’era una via d’uscita ed era molto breve (anche se da piccolo sembrava di andare in spedizione).

Mi piace pensare però che non solo ci sia un’uscita ma che questo tipo di urla gettate nella solitudine del buio possano essere lanciate da un posto confortevole, in cui comunque riposare, non nelle migliori delle condizioni, ma nonostante tutto un posto “accogliente”.

Per quanto io possa sembrare del tutto negativo di primo acchito in realtà amo disperatamente la vita, amo essere vivo e fare quello che faccio, in maniera viscerale ed entusiasta.

“La Cupa” per me è nata come una sorta di Carcosa per me e perciò di sicuro ci saranno altri capitoli (e dunque uscite)... ma il tutto verrà deciso in base al mio sentire (non voglio realizzare album di maniera) e alla risposta del pubblico. Per quanto possa suonare materialistico, se qualcosa viene ben recepito non può che darmi ulteriore motivazione e spinta nel proseguire e nel dare il meglio.


LG: Grazie.


DS: A te e a collettivoinconscio!





Per approfondire:

https://testingvault.bandcamp.com/album/la-cupa



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