SOKUSHINBUTSU PROJECT: ILLIMITATO DOLORE, SOTTERRANEA CATARSI

 

 


 

 

Sokushinbutsu Project è l’entità sonora creata da Enrico Ponzoni e Massimo Mascheroni.

Nelle quattro tracce che compongono la loro opera prima (edito da Industrial Ölocaust Recordings e disponibile in formato audiocassetta e CD) la realtà fisica e corporale è progressivamente distorta e ammutolita dall’incedere inesorabile del rumore, sapientemente modellato dai due musicisti. La trama sonora diviene commento dell’esperienza mistica estrema.

 

LG: L’idea alla base del vostro più recente progetto, Sokushinbutsu Project, trae origine da una pratica ascetica estrema, musicalmente resa utilizzando un’intricata intelaiatura di elementi industrial, gothic e sperimentali. Come è nata questa collaborazione e quale scopo vi prefiggete?

 

Enrico: Dopo aver deciso di suonare insieme per realizzare qualcosa di sperimentale ci siamo resi conto che volevamo entrambi avere un “tema” su cui esprimerci e che questo avrebbe potuto guidarci alla ricerca di un suono davvero nostro. Quasi per caso abbiamo scoperto in rete la pratica dell’automummificazione, che ci ha incuriosito, affascinato e inquietato allo stesso tempo.

Abbiamo dunque iniziato a recuperare e studiare attentamente alcune fonti su questo argomento, consultando articoli, saggi e tesi di laurea di diversa provenienza. Successivamente abbiamo deciso di realizzare quattro brani che potessero sintetizzare musicalmente le tre fasi del rituale e il suo epilogo. Una volta in studio abbiamo cercato suoni e rumori che potessero esprimere musicalmente le emozioni, le sensazioni, le riflessioni e le idee che questa pratica di ascesi aveva provocato in entrambi. Abbiamo costruito ogni singolo brano attraverso una prima improvvisazione, per poi costruire una struttura più coesa e un senso condiviso, fino ad arrivare al risultato finale.

Dato che il rituale del sokushinbutsu è qualcosa di spirituale e corporeo allo stesso tempo ci piacerebbe unire la parte musicale alla danza e al teatro fisico, creando un vero e proprio spettacolo teatrale in cui i quattro brani possano essere “danzati” attraverso varie arti o discipline come il butoh, lo yoga, la danza contemporanea e la strip plastic dance.

 



LG: Il disco suona aspro e spigoloso, meccanico e spietato (Tree-eating ad esempio), una rappresentazione lucida e dolorosa del destino del monaco. Esiste un’ulteriore chiave di lettura, forse di matrice sociale o psicologica?


Enrico: Sicuramente esistono più chiavi di lettura; noi abbiamo scelto uno sguardo antropologico. La traccia che hai citato sintetizza profondamente come questo rituale sia qualcosa che trasfigura il corpo, lo trasforma, lo deforma, lo mortifica ma allo stesso tempo se ne distacca per raggiungere la negazione della morte stessa, la fine del ciclo del Samsara, e dunque l’Illuminazione. Ciò che si percepisce all’ascolto è inevitabilmente influenzato dal nostro modo di “sentire” qualcosa di così complesso, sconosciuto e lontano da noi. Siamo abituati ad un pensiero dicotomico e prettamente occidentale, e fatichiamo molto a trovare una sintesi che superi la dualità (bene/male, corpo/mente, vita/morte, ecc). Per questo, forse ci ha colpito prevalentemente l’aspetto macabro e straniante del sokushinbutsu e ancora fatichiamo a vedere o capire il suo obiettivo finale. Questo è musicalmente percepibile, come tu hai bene espresso con gli aggettivi che descrivono questo disco.

Questo progetto offre comunque una sorta di riflessione sonora e immaginale sul senso del nostro esistere e le suggestioni e i significati possono essere davvero molto soggettivi.


LG: Il rumore è il paradigma di molte produzioni industrial e elettroacustiche: quando avete preso coscienza delle possibilità timbriche di questo elemento generalmente considerato di disturbo nelle produzioni musicali più conformiste e rassicuranti?


Enrico: Pur ascoltando diversi generi musicali da molti anni oltre a quelli che ho suonato ho potuto conoscere ed apprezzare l’elemento del rumore solo recentemente. Dapprima, grazie alla mia compagna, mi sono avvicinato ad alcuni artisti come Diamanda Galas, Neurosis, Ovo, Nine Inch Nails. Poi, grazie alla conoscenza degli ODRZ e di interessanti serate di ascolto musicale a casa di Massimo ho potuto rendermi conto di tutta la storia del panorama che va dal krautrock, al cyberpunk, all’industrial e post-industrial, fino al più estremo harsh noise. Inoltre, grazie al progetto ODRZ66 ho potuto apprezzare molti artisti della scena italiana noise e sperimentale (Maurizio Marsico, Francesco Zago, Osvaldo Schwartz e altri). E’ stato proprio in quel progetto che ho cominciato a stravolgere e ripensare completamente il mio modo di suonare la chitarra e, a causa della rottura di un mano poche settimane prima di registrare l’ultimo brano del progetto con altri musicisti, ho iniziato ad utilizzare per la prima volta un sintetizzatore.


Massimo: Io rimasi letteralmente folgorato da un concerto dei Naked City che vidi a metà anni ’90 e dall’ascolto, sempre in quegli anni, di molte produzioni japanoise. Trovo incredibile come partendo da rumore puro e da cacofonie assortite si possa arrivare a composizioni tanto articolate. Il mio approccio agli strumenti, dato che non sono un musicista nel senso letterale del termine (non so leggere la musica e lo spartito), è sempre stato trasversale: come ottenere suoni utilizzando ciò che ho davanti in maniera non tradizionale. Questo mi ha portato negli anni a “comporre” brani che uscissero dallo schema classico e che proponessero sonorità devianti, scabrose, urticanti - pur mantenendo una loro struttura “estetica” –e che potessero suscitare curiosità nell’ascoltatore anche meno addentro in questo mondo sonoro estremo.


SP: In Sokushinbutsu Project l’approccio è stato anche riflessivo rispetto al tema proposto. Ci siamo chiesti da subito come poter portare l’ascoltatore dentro questo rituale, con i suoni che andavamo a creare. Quindi, molti più suoni fluidi e ripetitivi e meno aggressione sonora.



LG: Sintetizzatori, campionatori, voci e nastri magnetici sono l’arsenale con cui realizzate le vostre sculture sonore: entrando più nel dettaglio, prediligete una particolare tipologia di sintesi rispetto alle molte sviluppatesi nel corso dei decenni? A giudicare dalla palette timbrica sembrerebbe essere ancora predominante la sintesi sottrattiva con le sue idiosincrasie, i suoi isterismi, il suo incontrollabile dinamismo.


Massimo: Il “suono Sokushinbutsu” scaturisce dal progetto a cui ci approcciamo; nel caso del nostro primo lavoro la logica è stata quella di non riempire troppo lo spettro sonoro. Il rituale da cui parte il tutto è un percorso lunghissimo (sulla carta dura quasi dieci anni ma nella realtà si può dilungare oltre, a seconda della risposta del corpo alle varie privazioni) e quindi per rendere musicalmente i vari passaggi abbiamo cercato di utilizzare pochi suoni, a volte anche densi ma in generale poco “pesanti”.

Nel progetto nuovo a cui stiamo lavorando in questo periodo, invece, c’è una alternanza di brani scarni e altri veramente pieni, sempre però mantenendo una continuità di “suono Sokushinbutsu”.


LG: Prima di Sokushinbutsu Project cosa c’era? Quali esperienze, progetti e dischi vi hanno condotto a questo traguardo? E cosa potrà esserci dopo?


Enrico: io provengo da contesti legati prima alla musica punk hardcore e successivamente al crossover e al nu-metal (principalmente come chitarrista e cantante in alcune band). Dopo aver visto Massimo suonare con ODRZ nel 2018, durante un festival di arte contemporanea nel paese in cui abitiamo e di cui ho curato la parte fotografica e social, è nata una profonda amicizia. Mi sono interessato alla musica sperimentale, noise e post-industrial e ho iniziato a seguire la scena italiana più da vicino.

L’anno seguente ho preso parte al lungo progetto ODRZ66, sia come fotografo per tutta la sua durata sia come musicista in un paio di improvvisazioni. E’ in queste occasioni che ho cominciato a ripensare e a stravolgere il mio modo di suonare la chitarra, avvicinandomi per la prima volta ai sintetizzatori.

Da lì a Sokushinbutsu Project il passo è stato breve: poco dopo la conclusione del primo lockdown (vivendo nello stesso paese), io e Massimo abbiamo deciso di provare a suonare insieme per realizzare un progetto sperimentale e molto particolare, che avesse un tema “forte” su cui poter lavorare artisticamente.


Massimo: Il mio percorso musicale, come musicista intendo, nasce a inizio anni ’90 con altri due musicisti/amici (Antonio Maione e Stefano Pagnoncelli), con i quali abbiamo lavorato per quasi dieci anni proponendo un mix fra industrial e cyber-punk che ci ha portato a produrre un paio di tapes autoprodotte e la partecipazione a una raccolta edita da una etichetta indipendente, emanazione di un negozio di dischi di Milano. A seguito dell’abbandono di Stefano, io e Antonio abbiamo deciso di spingerci in territori più sperimentali passando da Onde Rozze a ODRZ e da più di vent’anni proponiamo un ibrido fra post-industrial, noise e sperimentazione senza disdegnare incursioni azzardate in campo psichedelico.

L’incontro con Enrico avviene in occasione della biennale di arte “La Voce Del Corpo” alla quale noi ODRZ abbiamo partecipato nel 2018.

L’anno successivo abbiamo proposto a Enrico di testimoniare con le sue foto e video il nostro progetto più corposo in assoluto, ODRZ6: cinquantadue serate, una a settimana per tutto il 2019, in ognuna delle quali si incideva un brano improvvisato (un progetto aperto a tutti i musicisti che ne avessero fatto richiesta). Enrico, oltre a essere stato un ottimo testimone ha partecipato come musicista in occasione di un paio di sessioni e da lì ci è venuta l’idea di iniziare un percorso musicale/artistico insieme, parallelo a quello che continuo a proporre con ODRZ.


SP: I quattro brani del nostro primo lavoro sono nati molto velocemente e siamo stati molto fortunati ad aver suscitato l’interesse di Mario Cardinale, che si è mostrato subito molto entusiasta di produrre questo lavoro per la IÖR. Il progetto è stato recensito sulle riviste web Ver Sacrum ad aprile e Rosa Selvaggia a giugno oltre che sui numeri cartacei di Rockerilla di maggio e Blow-Up (giugno). I brani sono stati anche trasmessi in alcune puntate della trasmissione Prove tecniche di trasmissione di Radio Onda Rossa e Bepi Crespan Presents di CiTR Radio di Vancouver (Canada). Siamo davvero molto contenti!

Da questa primavera stiamo lavorando al nostro nuovo progetto sperimentale che abbiamo intitolato 5980-Patto Generazionale. In questo nuovo progetto affrontiamo sei brani di musica pop, tre per ognuno dei nostri anni di nascita, trasformandoli e dando loro una nuova e inaspettata veste. La maggior parte dei suoni utilizzati sono stati ottenuti da campioni dei brani originali e dalle loro partiture, in un lavoro di ri-creazione delle tracce per una loro trasfigurazione e mutazione.

In ultimo speriamo di poter proporre presto Sokishinbutsu Project in versione live, in locali e nell'ambito di festival di arti performative. 


 

 

LG: Self-Mummification è una traccia che lascia perplessi: dal titolo ci si aspetterebbe un drone avvolgente e immanente invece veniamo travolti da una marea cyber-industrial claustrofobica e inesorabile. Si è giunti all’illuminazione? Oppure la mortificazione corporale non ha avuto scopo?


Enrico: Componendo questo brano ci siamo immaginati una duplice attesa. La prima vista all’interno stesso della cripta, dove sentiamo che c’è qualcosa di mutato, buio, cupo, cavernoso, tutt'uno con la terra stessa, ma ormai trasfigurato e molto lontano da ciò che prima era semplicemente umano. La seconda avviene fuori (trascorrono altri tre anni), mentre i discepoli attendono di scoprire se il rituale è riuscito e se il loro maestro è finalmente diventato un Buddha. Dal minuto 7.00 una sorta di canto/mantra anticipa la lenta apertura della cripta e la scoperta del sokushinbutsu.

Il lunghissimo rituale è riuscito: la mummia ora viene vestita, sul capo viene posato un diadema e gli si mette tra le mani un rosario buddhista; viene poi seduta e collocata in un reliquiario. Il corpo del monaco, posto sopra un altare, sarà esposto alla vista dei fedeli in occasioni religiose e sociali importanti. È un sokushinbutsu, un Illuminato nel proprio corpo vivo.

Per citare il testo di M. Raveri - Itinerari nel sacro, “Egli ha fatto della zona di margine tra vita e morte la centralità della sua esperienza. Ha negato sia i limiti dell’una che dell’altra realtà esistenziale, partecipando di entrambe. Dove la cultura ha posto separazioni, lui ha attuato un’unione. […] Ha piegato le leggi naturali e oltrepassato i limiti della propria fisicità, così come ha rifiutato i rapporti sociali quotidiani e la prassi religiosa ufficiale.”



LG: Grazie.


SP: Grazie a te per l’interesse che hai mostrato nei confronti del nostro lavoro e per averci dato l’opportunità di approfondire e spiegare meglio il senso di questo progetto.

 

 

Per approfondire:

https://www.facebook.com/SokushinbutsuProject/

 

 


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