GIANLUCA BECUZZI: LA PERSISTENZA DELLA FORZA PRIMIGENIA



 

 

 

 

PARTE PRIMA


a cura di Antonio Tonietti



 

 

«Nessuno ora mi riconoscerebbe:
una montagna di nervi
geme,
si contorce.
Che può volere questa massa informe?
Di tante, tante cose avrebbe voglia!»

Vladimir Majakovskij, La nuvola in calzoni



«In verità, tu sei una montagna»

Osho, L’arte del mutamento

 

Il nuovo lavoro di Gianluca Becuzzi si presenta come il capitolo finale di una trilogia sciamanica iniziata con Voices (2020, Luce sia), proseguita con In Between (2020, St.An.Da.) e che vede il suo ideale compimento nel granitico doppio CD profeticamente intitolato Mana (2021, St.An.Da.). La inquietante copertina, opera del sempre ottimo Stefano Gentile, detta i toni di un itinerario che si annuncia oscuro e spirituale al tempo stesso. Divisa in due parti l’opera (al nero?) si articola in nove tracce, verrebbe da dire in nove atti, tanti quanti sono i pioli della scala cosmica che ascende alle Sfere Celesti.

Secondo Mircea Eliade “oggetti e uomini possiedono il mana perché l'hanno ricevuto da certi esseri superiori, in altre parole perché partecipano misticamente al sacro, e nella misura in cui vi partecipano”.

Becuzzi allora assume il ruolo di sciamano sonico e ci conduce nella prima parte lungo un viaggio che si apre con la invocazione (pregare gli spiriti per stabilire con essi una comunicazione) e si conclude con una evocazione (fare sì che gli spiriti si manifestino tangibilmente nel mondo reale). Gli strumenti utilizzati dall’artista toscano per svolgere il proprio compito non sono quelli di una pacata preghiera, ma ricordano da vicino quelli dei Chopa del Bön tibetano: il sacerdote non è figura sottomessa ma provoca apertamente gli spiriti per ottenerne risposta. L'armamentario dispiegato nella apertura di “Invocation” è sì quello rituale quindi, ma suonato seguendo dissonanze; e la risposta non tarda ad arrivare: oscure bordate droniche travolgono l'ascoltatore sottendendo l’apprestarsi di creature provenienti da un Là-bas huysmaniano. Il viaggio prosegue fra percussioni tribali (le ossessioni cardiopalmiche di “Possession”), dissonanze blasfeme (nelle inquietudini di “For A Modern Atavism”) e cavalcate elettriche a base di chitarre baritono (il vertice doom di “Persistence”). La conclusiva “Evocation”, grazie alla complicità delle macchine olliane lancia i prodromi del sacrificio che si compirà di lì a breve nella prosecuzione del viaggio.

Becuzzi pare voler portare a compimento un progetto iniziato decine di anni prima con i suoi studi dedicati all’Azioniamo Viennese. Quello che ci aspetta nella seconda parte di Mana, vera e propria trilogia nella trilogia, pare infatti la colonna sonora perfetta per i rituali del Das Orgien Mysterien Theater di Nitsch. L’atmosfera diviene plumbea, le chitarre, se possibile, gridano più minacciose; voci campionate di monaci tibetani si aggiungono ad una miscela già nera e densa come pece. La montagna è massa informe, parte della terra da cui si innalza ed eleva, asse di congiunzione fra questa e le realtà superne. Compito di chi ha il mana è percorrerne i sentieri, ascendere a dimensioni superiori per poi al ritorno rendere partecipi gli altri dell'Inaccessibile. Lo sciamano/artista, arrivando anche al simbolico ed estremo sacrificio del sé, conduce l'ascoltatore/adepto lungo la via dell’abisso, evoca forze ctonie e porta a termine il suo rituale sonico. Alla fine non si può che uscirne cambiati: una catarsi orgiastica resa possibile dal mana e da chi ne è latore.




PARTE SECONDA

 

 INTERVIEW

a cura di Luca Giuoco

 

 

 


LG: In Mana il suono è magia e l’artista è sciamano.


GB: Sì, il gesto dell’artista somiglia per molti versi a quello dello sciamano, il quale fa da tramite tra il mondo degli uomini e quello degli spiriti. La volontà di entrambi tende al superamento del reale e dell’ordinario, alla ricerca dell’evocazione di una dimensione diversamente inaccessibile. Il musicista, nello specifico, mette in vibrazione la materia inerte del proprio strumento producendo un suono. Quel suono, organizzato in musica, diventa l’espressione di un’ombra, l’incarnazione di qualcosa fino a quel momento appartenuta a un altro mondo. In questo senso la musica, nella sua forma più potente, è magia.


LG: Nelle note di copertina parli di due mondi distinti in cui vive l’artista.


GB: Certo, da una parte esiste la realtà inesorabile, fatta di fatiche e miserie quotidiane, di regole e imposizioni. Dall’altra la dimensione libera della creatività, dove tutto è virtualmente possibile. L’arte può generare energie, dispiegare orizzonti e attivare sentimenti e pensieri. L’artista vive in bilico tra queste due condizioni e forse il suo compito è proprio quello di aprire un varco tra l’una e l’altra.


LG: L’aspetto ritualistico, “sciamanico” di quest’opera è parte di una tua ricerca meta-musicale che prosegue il discorso intrapreso con Voices e In Between. Sembra che nell’era della supremazia tecnologica gli artisti cerchino di riconnettersi ad un passato remoto di ombre, pietra e forze ultraterrene.


GB: Personalmente non ho nessun credo, nessun dio, sono agnostico. Penso, però, che l’umanità contemporanea, nonostante la sua fede nella scienza e nella tecnologia, conservi in sé degli elementi ancestrali mai sopiti. Nascosto tra le pieghe delle nostre società si può percepire un senso del sacro senza nome, una spiritualità che non si identifica in nessuna religione, nessun culto, la persistenza di qualcosa che viene da molto lontano. Mircea Eliade, in questo senso, può essere un riferimento utile; anche perché vi troviamo un concetto illuminante sulla condizione storica dell’artista-sciamano, quello di ‘decadenza’: egli non potrebbe mai essere assimilato a uno sciamano per così dire autentico, ma ha lo stesso il compito di dare voce a questa esigenza di sacralità dell’uomo moderno. Io rispondo in chiave artistica e non religiosa, ovviamente. Del resto, non è difficile cogliere tracce di elementi para-liturgici, ritualistici, in alcune forme dell’arte di oggi.

 

 



LG: Voice of the Mountain e Blood of the Mountain incorporano samples di canti monastici tibetani. La montagna è ancora simbolo di ascetismo e illuminazione. Per raggiungerla è necessario allontanarsi del tutto dalla società, isolandosi e divenendo tutt’uno con l’ambiente.



GB: Hai colto correttamente il simbolismo mistico della montagna. Però, come già detto sopra, io sono agnostico, non pratico nessun culto, evidentemente neppure quello buddista tibetano e non credo che un artista debba ritirarsi in anacoresi per esprimersi al meglio. Al contrario, io amo vivere nelle grandi città metropolitane. Scegliere di utilizzare i canti dei monaci tibetani è un espediente estetico utile a comunicare l’idea che sta alla base di ‘Mana’. Del resto, nel precedente ‘In Between’ avevo usato “le voci delle streghe” del film ‘The Witch’ e nell’album attualmente in lavorazione sto utilizzando alla stessa maniera i canti liturgici della Chiesa Ortodossa bulgara. Ai miei occhi buddismo tibetano, stregoneria europea e chiesa ortodossa sono facce diverse, e soprattutto molto suggestive, della stessa medaglia.


LG: Da un punto di vista formale l’opera presenta scenari sonori che cambiano drammaticamente in una sorta di contrapposizione di pieni e vuoti e un leit-motiv di matrice doom che attraversa l’intero lavoro.


GB: Come ho scritto nelle note di presentazione di ‘Mana’, mi interessa sperimentare tutta una serie di dicotomie concettuali e formali: la presenza e l’assenza, l’affermazione e la negazione, la potenza e la leggerezza, l’ostentazione e la sottrazione. Sotto il profilo più prettamente musicale tutto questo si traduce in composizioni che vivono in equilibrio tra minimalismo (della scrittura fatta di poche note) e massimalismo (dei muri di suono/rumore), oltre che nel contrasto plastico tra riduzioni/sospensioni/silenzi e deflagrazioni al massimo del volume consentito. Immagino di lavorare il suono come uno scultore modella le masse o un artista visivo distribuisce le luci e le ombre.


LG: Utilizzi sempre di meno i sintetizzatori e sempre più la chitarra. D’altronde dopo le percussioni i cordofoni sono stati tra i primi strumenti della nostra civiltà.


GB: Non possiedo più un sintetizzatore da svariati anni. Per comporre utilizzo la chitarra, i cordofoni/mollofoni costruiti dal mio amico Massimo Olla, impiego qualche oggetto trovato e registrazioni di campo. Insomma, se si fa eccezione per gli effetti a pedale e per il computer, che uso come registratore digitale, cosa che oggi fanno musicisti di ogni estrazione e genere, direi che le mie composizioni non possono essere definite elettroniche. Negli anni il mio interesse nei confronti della musica elettronica si è ridotto dal punto di vista degli ascolti e si è praticamente esaurito dal lato della composizione. Oggi la mia attenzione è rivolta a creare un suono di origine acustica, in seguito elettrificato/elaborato, che possieda una qualità spiccatamente materica. Ho la sensazione che questo sia un mezzo più idoneo, una scelta più coerente per riuscire a esprimere le tematiche e i contenuti della mia musica, per evocare i miei fantasmi e celebrare i miei rituali.


LG: Grazie. 

 

 


 


Pagine di approfondimento su Gianluca Becuzzi e Antonio Tonietti:

gianlucabecuzzi.bandcamp.com

https://it.wikipedia.org/wiki/Gianluca_Becuzzi

https://sonorus-records.bandcamp.com/album/improvvisi-per-tavola-armonica-son009


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