MARCO COLONNA FRANCESCO CIGANA: DONI DAGLI ABISSI


 

 

 

Francesco Cigana e Marco Colonna sono autori e interpreti di Shells, album che definire free jazz risulta oltremodo riduttivo. Le invenzioni percussive di Cigana – in cui rumorismo e ritmo formano un’amalgama omogenea – si sposano al lirismo dei fiati di Colonna. Un lavoro ispirato ed emozionante per accostarsi alla nuova frontiera della musica improvvisata. 

 

LG: Perché Shells. Cosa aggiunge, cosa toglie.

MC: Se la domanda intende perché del lavoro, perché incontrarsi e cercare di documentare al meglio un incontro la risposta non può che essere perché è necessario. È necessario confrontarsi e rendere artistico l’incontro. Agire in un luogo - la sala di registrazione - in cui chirurgicamente analizzare il valore delle proprie scelte e delle proprie visioni. In questo caso specifico Shells nasce per volontà di Francesco in primis ma appartiene a quello spazio di comunanza di intenti che difficilmente si trova. Non so se possa aggiungere qualcosa; sicuramente toglie all’intimità una parte del nostro essere profondo, la toglie e la consegna a chi vorrà ascoltare. Trasformandola e rinnovandola. Agendo come Arte fra gli uomini. Strumento di riflessione e domanda.

FC: Aggiunge combinazioni nuove e timbri nuovi, con forme e strutture che emergono con naturalezza in superficie. Da lì è nata anche l'idea per il titolo del disco, che si collega ai miti della creazione, spesso chiamati appunto miti dell'emersione. Nella fase di ricerca del nome, fase che per me ha un fascino adamitico non indifferente, è stato curioso scoprire come molta di quella mitologia ha proprio il suono come protagonista. Marco ha la capacità di portare alla luce le idee in modo chiaro e immediato: suonarci assieme è un’esperienza che personalmente non può che arricchirmi e, curiosamente, rassicurarmi. Da un altro punto di vista ti posso rispondere così: mi piace pensare che togliamo dal mare dei suoni per donare alla battigia.


LG: Free Jazz: un linguaggio ormai consolidato ad uso esclusivo dei cultori del genere oppure un contenitore di esperienze musicali eterogenee ancora in fase di esplorazione?

MC: Dal mio punto di vista Free Jazz è un’etichetta fin troppo vaga di esperienze composite e stratificate nel tempo che non possono essere “controllate” attraverso una semplice definizione. Per Shells probabilmente il Free Jazz come lo si intende di solito non è altro che una delle “tradizioni” di riferimento. Ma direi non la più preponderante. Le caratteristiche linguistiche di una musica nata come emanazione delle esigenze intellettuali e artistiche di una comunità internazionale, sono fondamento di moltissima musica attuale. In questo senso non può smettere di essere stimolante. Non lo è nel tentativo (tutto commerciale) di cristallizzarla e renderla un feticcio di una nicchia di mercato discografico che dal mio punto di vista è avvilente e disonesta con gli assunti profondi di quello che chiamiamo Free Jazz.

FC: Più che altro forse una definizione usata a volte in modo un po’ pigro per catalogare molta musica che vive di elementi eterogenei e complessi, perché per parlare di certi mondi sonori serve molta pazienza e competenza. In termini generici è un linguaggio che non ho mai vissuto come “esclusivo”, anche se di fronte al panorama culturale mainstream risulta decisamente ancora qualcosa di marginale, ma così viene percepito anche il jazz classico... La mia percezione invero è che sempre più spesso alcuni elementi superficiali del Free Jazz entrino nelle produzioni odierne, mentre altri vengono decisamente trascurati, come la componente performativa, spirituale, sociale e politica.

 


LG: In Shells il rumorismo è parte del flusso ritmico e non un mero componente accessorio e l'elemento melodico è spiraliforme ed enigmatico.

MC: Evidentemente il lavoro compositivo in queste improvvisazioni raggiunge il suo scopo di assunzione di “materiali” musicali in una prospettiva generativa. Sia io sia Francesco abbiamo un modo simile di intendere il processo improvvisativo. Ogni elemento si pone paritario in una prospettiva di relazione. Questo porta alla trasformazione di alcuni elementi o la ricollocazione strutturale di altri. Accettare questo apre le porte verso una costruzione compositiva dell’improvvisazione che è il motore profondo di tutto il lavoro.

FC: La distinzione tra suono e rumore mi è sempre stata stretta; ovviamente la capisco ma mi è altrettanto chiaro che non la voglio comprendere. Nell’atto creativo/compositivo tutto è materiale e come tale ha valore ed esige cura e attenzione. Se è vero che il contesto è una parte importante della scelta e organizzazione del materiale è altresì vero che spostare il focus non soltanto sull’oggetto in sé, ma anche sulla sua collocazione, sul suo trattamento, sul suo trasformarsi, rappresenta il “tendere la corda” da cui costruiamo il nostro rapporto e quindi la musica stessa.

 


LG: Per molti musicisti e compositori digitalizzati, che vivono costantemente immersi nell’editing e nella manipolazione sonora - come molti lettori di questo blog – la musica improvvisata è un mistero, un enigma.

MC: Non so perché ma direi che il processo che sottintende all’improvvisazione è invertito a livello temporale. Noi manipoliamo e tagliamo prima di cominciare a suonare.

FC: Sussistono delle differenze innegabili anche solo, concretamente, per la presenza del comando annulla/ripeti così fondamentale nel reame della composizione digitale. Tuttavia credo che se ci si ponesse come obiettivo quello di incorporare l’improvvisazione all’interno di quel contesto, i mezzi a disposizione sarebbero diversi: la randomizzazione parametrica, lo sviluppo tecnologico dei controller, la possibilità di agire su diversi layer/strati sonori e soprattutto l’AI. C’è ovviamente poi da fare la distinzione se si sta parlando soltanto di composizione digitale o anche di una parte performativa. Forse ad oggi l’improvvisazione non è percepita come elemento necessario a livello artistico in quell’ambito, ma può darsi che lo diventi. Il mistero che citi credo semplicemente si riveli in luoghi differenti tra le due pratiche, ma averne consapevolezza può aiutare moltissimo: se vi è la volontà di risolvere un enigma, sapere che attrezzi o indizi si hanno a disposizione è un buon punto di partenza.

 



LG: Il vostro rapporto con la contaminazione, l’elettronica e la tradizione.

MC: per quanto mi riguarda io intendo il suono come elemento primordiale di azione. Se da una parte il mio contatto con la tradizione emerge dal privilegiare il suono acustico, mi accorgo che parlare di una singola tradizione è un’altra delle cose disoneste che vengono imposte. Ho più tradizioni a cui appartengo, e nel tempo il mio rapporto è migliorato con l’idea di essere ai margini di tutte… Margine che, se inteso come luogo di contatto, diventa uno spazio creativo di cui cerco di nutrirmi sempre.

Il mio rapporto con l’elettronica, dopo una fase di tiepida infatuazione, attualmente è praticamente nullo. Ma non precludo incontri futuri. La manipolazione intesa come trasformazione timbrica per arrivare ad intendere il suono come sintagma, quella sta in ogni singolo respiro che metto nei miei strumenti.

FC: Il rapporto con la tradizione è un punto un po’ dolente per me poiché non riesco a ricondurmi a nessuna tradizione particolare. In parte immagino abbia anche a che vedere con la mia origine geografica: sono nato a Bolzano, che se, come ogni luogo invero, da un lato ha sicuramente delle tradizioni musicali, dall’altro tali tradizioni non hanno mai risuonato in me in alcun modo. Sento a me vicini repertori decisamente più lontani, ma la fascinazione dell’esotico in quanto tale è una trappola in cui è facile cadere. Finché non ho iniziato ad accettare il fatto che non far parte di una corrente, quindi il non avere un’identità già definita, non fosse un difetto di per sé, ho spesso invidiato chi si ritrova all’interno di un contesto ben determinato e da lì attinge il proprio materiale. Pertanto per quel che concerne la contaminazione… direi che sono principalmente contaminato ma cerco continuamente di rendere questo patchwork il più profondo e unificante possibile. Quando suonando mi scopro libero da pensieri sovrastrutturali legati a stile, tradizioni e simili, la necessità di riferirmi a questo o quel linguaggio diventa accessoria e felicemente, e forse in modo ingenuo non lo nego, semplicemente sento di star facendo la musica che voglio fare, e tanto mi basta.

L’elettronica la esploro da diversi anni ma il più grosso ostacolo in quella direzione è rappresentato dalla gestualità: in ambito performativo (che è il mio punto di partenza per quasi la totalità delle mie produzioni) non ho ancora trovato qualcosa che mi soddisfi del tutto. Il generare suoni che sembrano frutto di una produzione elettronica pur provenendo dal reame analogico è una caratteristica del mio modo di suonare ma rappresentano ben più di un mero esercizio di stile: credo sia un sincero apprezzamento verso quel mondo sonoro, che cerco di raggiungere a mio modo con un mio linguaggio.


LG: Francesco, mi accennavi ad un laboratorio e orchestra di improvvisazione che dirigi da molti anni e a come la “potenza delle idee” sia uno dei principali paradigmi educativi.

FC: La DOOOM Orchestra, che si configura come collettivo stabile da un lato e come laboratorio di avvicinamento all’improvvisazione dall’altro, è una realtà che porto avanti da ormai 4 anni. Molti dei ragazzi che fanno parte del collettivo stabile, quindi dell’orchestra più propriamente detta, hanno iniziato proprio dai laboratori, per cui spesso le tematiche su cui si lavora sono le stesse, anche se ovviamente a livelli differenti. Una di queste è senz’altro lo sviluppo, e il trattamento di un’idea. Credo fortemente che ogni idea proposta debba avere due caratteristiche: essere pericolosa e contenere degli elementi che la connotino. Per pericolosità intendo che sia affilata, precisa, presentata con convinzione e potenzialmente in grado di spostare equilibri o generare nuove situazioni. Per gli elementi che devono connotare un’idea intendo che siano presenti delle proprietà sonore che la rendono riconoscibile e “sfruttabile”. La potenza generale di una proposta è data dalla somma di questi due aspetti. Questo approccio, che qualcuno può definire molto razionale, è specialmente utile in ambito didattico, con l'obiettivo di renderlo abitudine e quindi istintivo.

Specialmente in un ensemble di queste dimensioni - una dozzina di elementi - riflettere e lavorare su questo tema per me è cruciale.


LG: Grazie.

 

 

 

Per approfondire:

https://newethicsociety.bandcamp.com/album/shells


Commenti

Post più popolari