HUMPTY DUMPTY: COME LA CODA DISGIUNTA D'UNA LUCERTOLA

 


 

 

Rodato da oltre venti releases Humpty Dumpty (nom de plume di Alessandro Calzavara) avvolge all’interno di una cornice apparentemente naïf per ispirazione e contenuti (Barrett docet) un progetto nel quale confluiscono stimoli e suggestioni di quarant’anni di musica centrifugati all’interno di una personalità oltremodo creativa, impreziosito da incastri virtualmente perfetti anche quando si sente la volontà di renderli imperfetti, spigolosi e acidi. E di acidi la sua musica ne è colma: nelle armonie, nelle modulazioni vocali e talvolta in alcune derive sperimentali alquanto riuscite. Humpty Dumpty è anche il progetto con cui l’autore si oppone ad un’industria – quella discografica - ormai prossima alla morte cerebrale (in tutti i sensi) autoproducendosi con orgoglio e nella piena libertà creativa. Il rovescio della medaglia è la poca attenzione che si riceve dalle penne del settore giornalistico-musicale e qui c’è da dire che non tutti sono servi del denaro, c’è ancora chi scrive con entusiasmo di progetti realmente sotterranei e lontanissimi dal mainstream ma il mondo delle autoproduzioni è talmente vasto e multiforme al punto da scoraggiare talvolta un’analisi più approfondita. Personalmente mi trovo sempre meno a mio agio nella forma canzone: ho come l’impressione che il nostro presente necessiti di poche parole, a volte nessuna. Incapsulare in pochi minuti un’immagine, una suggestione o uno stato d’animo è un’operazione terribilmente complicata e la lezione del passato finisce spesso per ingabbiarci, facendoci cadere inevitabilmente nel derivativo. Ascoltare Humpty Dumpty significa anche e soprattutto chiedersi se scrivere canzoni memorabili al giorno d’oggi sia ancora possibile finendo con la consapevolezza che scrivere una canzone oggi sarà sempre un’attività migliore di molte altre.

 

 

LG: Humpty Dumpty: alter ego o super io critico?


AC: Io sono un cavallo morto o quasi; non mi sollevo dalla striscia di gesso che per i fantini è solo l'inizio. Son cavallo che ha raggiunto il proprio presente strisciando su ciottoli aguzzi di passato e sa far solo il cavallo morto o agonizzante. Da qui rimugina la felicità modestina di non essere ancora approdato come oscena carcassa stopposa al gancio della macelleria virtuale della competizione pubblicitaria, ancora da vivo e da cantante (nella degnità presunta di poterlo fare per inclinazione, aristocraticamente autosacrificale). Sto lì, sulla terra tiepida che gli zoccoli degli altri sollevano sbuffando; sto lì accoccolato senza più appetito per correre e nitrire, senza financo un padrone mentale, un idoletto, un afflato miasmatico che m’inciti a proseguire. Ho dispensato certuni dalle scommesse, persino da quelle vincibili, per timore di cosa conseguirebbero in acquisto. Proseguo come la coda disgiunta d’una lucertola, nel perenne sfarfallio dell’ultima canzone. 

A rigor di termini d’un dizionario di trent’anni fa (non avendo mai automatizzato l’aggiornamento, sopraffatto da lentezze spirituali e sordastro allo strillone del Kali Yuga) sono specificamente morto e, nonostante la morte, spesso dormo profondamente. In tali frangenti, dietro le palpebre, resto sotto immagini di pascoli aperti, dove per guadagnarsi un buon pasto ristoratore di calore umano e sonno morbido sul letame non serve gareggiare né farsi notar troppo imbizzarrendosi. Nelle condizioni d’uso dei nuovi update (che fioccano come pubblicità nella cassetta della mia disattenzione) sembra che io non abbia punto prerequisiti per tagliar alcun traguardo. Prima di fatalmente flettere le zampe ero ronzino felice di far ronzare attorno a sé le mosche e conducevo vita da ronzino ronfante, perché si trascurò diuturnamente di montarmi e giammai lusinghe o violenze mi schiodarono dagli zoccoli invano pronti alla corsa. Tuttavia, per chi avrei dovuto correre? No, no; m’è dilettevole quietamente riposar (o simular riposo) sulla terra su cui avrei poggiato sicuri i passi di chi sa che non serve niente più d’esser cavallo, a un cavallo, per essere cavallo. 

Se dovrai stendere un verbale d’intervista scrivi pure che sarei arrivato volentieri ultimo, pur d’essere, a me stesso, cavallo né da corsa né da trotto; da ronzino ho gradito pascolare sonnacchioso e, ogni tanto, accompagnare qualcuno pel pendio gaudioso del piacere distintivo, uniti in un’accorata passeggiata verso il declivio del crepuscolo del rock. Si trasponga in termini tuorlocentrici la metafora, per comodità. Vi si aggiunga un po’ di sesso. Goo goo g'joob.

 

 



LG: Autoproduzione senza compromessi: cosa si ottiene, cosa si perde.


AC: Non potendomi esser autoprodotto come organismo – e con questo aver potuto ostentare oculatezza nella perfetta costruzione d’un vivente non aggressivo - mi autoproduco per ciò che vi è di sovrabbondante e musicale. Perché avrei dovuto accollarmi la sicumera di portar un nome s’avessi deciso d’aprir le finestre al lezzo dell’attualità? Tutti persi nel vento dell’ostensione, del non-più meritevole d’attenzione, del robotico prender in prestito pretesti pretenziosi e spalmarvi sopra il già-saputo e il già-temuto? No, è preferibile darsi per caso e caso-per-caso e dare il numero di telefono a pochissimi. Confesso e so d’esser bizzoso: esser ascoltato da un gran numero mi renderebbe indefinito e sofferente, inglobato situazionisticamente nelle quisquilie psichiche eterodirette del casuale-utente-virtuale. E invece io voglio segreto.

Voglio due persone alla volta, quelle poche volte che mi sento persona anch’io. Che la cosa resti così decente da espormi alla determinazione (con tutta la morchia eziologica che ne deriva). Se vieni da me e mi chiami mentre mi ascolti mi faccio trovare in ghingheri come costituito da qualcosa di realmente separato dal resto e identificabile, anche se solo per finta. Mi è congeniale, se non devo nascondere tutta la hybris, esser diverso dal non aver tu pigiato il pulsante, dal non aver tu aperto le orecchie. Voglio insomma interrompere il flusso d’ipnotica coazione anche solo per dirti “sono vanitoso”, dunque fai finta che abbia qualcosa da dirti che non è coerente con la levigatezza del prodotto che giustifica sé sol per essere venduto. Voglio essere qualcosa che non ti torna, che non collima, che non si vende, di cui non si parla nei termini futili dello stare sullo scaffalino della comunicabilità innocua. Insomma, se ti sei accorto di me e mi pensi identico, sappi che la Panini non ha lasciato alcuno slot libero per me. Non ho mai rivelato ai compilatori di cataloghi il mio vero nome e ai falsi amanti il mio cuore. Sono povero e pazzo, ma che importa? Sono un cavallo morto o in via di morte. E mi piace ancora ruminare la giunchiglia sfruttando la forza di gravità.


LG: Il futuro della psichedelia alla luce del suo passato. 

 

AC: La psichedelia doveva poter andare dove potesse. Prima dei grandi esploratori si poteva potere. Poi sappiamo com’è andata: hanno venduto tutto quello che riuscivano a sapere e disboscato l’umanità pittoresca del non-anglocentrico. Forse solo lo spazio presenta ancora qualche margine di fuga ma se lo stanno accaparrando i grandi ricchi. Anche la psichedelia sta oggi sugli scaffali e sui preset dei grandi startuppisti. Mi interessa tanto quanto. Forse è financo un termine antiquato o non è così importante quello che riesce a non fare più. Di sicuro mi piacerebbe pensarla ancora fuori, con qualcosa a cui opporsi o a cui sfuggire, ma mi sa che è del tutto inoffensiva e, senza il suo vecchio margine di novità, scarsamente suggestiva. La si usa come font tra i font, come riferimento tra i riferimenti; come corpo morto può essere esposta al museo della gioventù senza-esperienza. Che vada al diavolo.

 

 


LG: Autori di canzoni: attori di uno psicodramma del XXI secolo.


AC: La canzone è come aver piacere a mettere su una pagina una certa quantità di parole. La canzone è un foglio bianco, o con le righe o con i quadretti, e ti facilita a seguire dei preset creativi. Si crea una certa abitudine, come si crea per tutte le altre forme schedate della materia sonora; è sempre il cervello a voler spendere poca energia e muoversi in posti di cui si possa inoltrare la posizione alla famiglia. È la forma su cui la mia abitudine ha fissato un certo grado di perizia e costanza ma potrebbe darsi che un giorno torni divertente farle la guerra. In realtà amo molto il mio giardino, i miei scaffali e tutti i nomi di fiori che riescono qui ad attecchire. In realtà, al posto di quelli che scrivono, lascerei perdere un po’ l’ossessione del nuovo. Credo che ne sia rimasto poco e forse serve centellinarlo.

 

LG: Chi non vorresti essere.


AC: Non vorrei essere tutto ciò che non sono. Può sembrare presuntuoso ma il vantaggio del non dover dar conto a etichette, stampa e pubblico mi permette di essere sempre, volta per volta, ciò che sono. Sono tempi in cui se ami la musica è consigliabile non renderla il tuo lavoro. Torneranno forse tempi poetici diffusi; per ora è solo tanfo di uguale vaporizzato come feromoni per felini un po’ ovunque. È un po’ ridicolo proclamare e fra tutte le cose da proclamare il nuovo è la più vecchia di tutte. Comunque se dovessi scegliere un simbolo, uno solo, di quello che esecrerei essere è: uno molto visibile. Si capirà in futuro, forse, che in questo periodo non fosse possibile creare e farsi vedere nello stesso tempo.


LG: Humpty Dumpty Futuro Prossimo.


AC: Continuerò a registrare piccole porzioni del mio tempo e del mio disagio organico fino a quando ne trarrò piacere residuale. Continuerò a dare il mio numero a pochi. Userò la musica che dico mia come trait d’union tra me e le persone che ho piacere ad avere attorno.


LG: Grazie.

 

 


 

 

https://humptydumpty.bandcamp.com/

 

 

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