DAMAVAND: MARE ARDENTE, VETTA QUIESCENTE

 


In conversazione con Gianluca Ceccarini e Alessandro Ciccarelli

a cura di Antonio Tonietti e Luca Giuoco

 

AT: “Caro spettatore, non cercare in questo film la biografia del grande poeta armeno del XVII secolo Sayat Nova. Noi abbiamo solamente tentato con il mezzo cinematografico di ricostruire il mondo di immagini della sua poesia”. Così si esprimeva Sergej Paradzanov a proposito della sua opera Il Colore del Melograno a cui il vostro lavoro si ispira. Si può dire che l’ascoltatore di As Long As You Come To My Garden debba aspettarsi quindi non una immaginaria colonna sonora bensì delle suggestioni musicali che richiamano il mondo poetico dell’ashugh georgiano?

AC: As long as you come to my garden trae spunto dalla potenza evocativa della messa in scena e dai suoni che accompagnano il potere misterico delle immagini del capolavoro di Parajanov.
Non c’è stato alcun intento di realizzare una colonna sonora comunemente relegata come accompagnamento alle immagini, ma il film si rivela essenzialmente come una suggestione originale dalla quale siamo partiti per una sperimentazione sonora che non fa riferimento a uno specifico mondo musicale, ma, attraverso i vari brani, si svelano stratificazioni afferenti alla nostra formazione musicale differente, ai nostri ascolti disparati e a sistemi musicali diversi.

GC: La suggestione originale di partenza di cui parla Alessandro in riferimento al film riguarda non solo le immagini di Parajanov, ma anche, e soprattutto, il corredo sonoro del suo film. Dopo una prima attenta visione del lungometraggio ne abbiamo separato e salvato l'intera traccia audio, il cui ripetuto ascolto, almeno per quanto mi riguarda, ha stimolato idee e suggestioni sonore da utilizzare per l'album. Oltre a questo, il suono del film si è rivelato un costante e prezioso contenitore di ready-made: voci, suoni, rumori, ecc. a cui abbiamo attinto per campionamenti vari successivamente rimaneggiati in diversi modi: allungati, sovrapposti, distorti o sottoposti a sintesi granulare come nella seconda parte del brano Part 5 or "Pegasus sprung from the fiery sea".

 

 


 
LG: Parlare di Paradzanov oggi significa aprire un profondo squarcio nell’immobilismo acritico di molta arte contemporanea, spesso mollemente adagiata su di un letto di suggestioni preconfezionate. Parlare di questo autore purtroppo non scuoterà le coscienze, anche se dovrebbe.

GC: Ci sono autori, rari, che dedicano la vita alla propria arte rischiando spesso sulla propria pelle e che sentono la responsabilità di dover fare qualcosa che possa in qualche modo stimolare riflessioni e senso critico, uno di questi è sicuramente Parajanov. Il film "Il colore del melograno" di Parajanov è una biografia per immagini del trovatore armeno Sayat-Nova, ma è prima di tutto, nella volontà del regista, un'occasione per affrontare il tema del ruolo dell'artista all'interno della società in cui vive e opera. Tema sicuramente caro a Parajanov, la cui opera in più occasioni è stata soggetta a fortissime censure da parte delle autorità sovietiche. "Il colore del melograno" venne ritirato dalle autorità per "estrema deviazione dal realismo russo". Nel 1971 è impegnato nelle riprese di “Affreschi di Kiev’’, rievocazione surrealista della nascita della capitale ucraina, una critica alla distruzione degli affreschi nelle chiese della città. Le riprese vengono interrotte a metà e il progetto dichiarato antisovietico. Tre anni dopo Parajanov viene arrestato con accuse di furto e omosessualità e condannato a cinque anni da trascorrere in un campo di riabilitazione. Liberato nel 1977, gli viene impedito di girare film. Nel 1982 è di nuovo in carcere.
La tenacia sovversiva di Parajanov ricorda quella del regista iraniano Jafar Panahi autore di numerosi film che in vari modi criticano più o meno apertamente il Regime religioso iraniano e per questo più di una volta condannato al carcere e soggetto a dure censure e divieti. Panahi è stato allievo di Abbas Kiarostami, entrambi amanti del neorealismo italiano, e di un altra figura sovversiva che è Pier Paolo Pasolini, regista e scrittore italiano fortemente amato anche dal nostro Parajanov, il quale in una video intervista dice "If someone said: your films resemble those of Pasolini, then I'd feel larger than life. I could breathe easier."

AC: Il problema non è tanto nell’immobilismo dell’arte contemporanea oggi, che a livelli diversi è viva ed esprime anche della radicalità, quanto nella criticità dell’emersione a un livello di superficie di questo tipo di contenuti, annacquati nel mare magnum di un’offerta culturale scadente e ridondante per scelta o pigrizia. Ricorrendo a semplificazioni (con i rischi del caso), l’intoppo mi sembra sempre nella intermediazione tra chi crea arte e chi ne fruisce. Saltare l’intermediazione di una certa informazione e di una certa critica espone il fruitore comunque a una ricerca difficoltosa ma che potrebbe rivelarsi decisamente più appagante.

 

 


AT: Sayat Nova era un poeta ad ashugh (bardo, diremmo noi) georgiano che si accompagnava col kamancià. L’ascoltatore attento potrebbe restare spiazzato dal fatto che nel vostro lavoro ci sia invece tanto Iran: nelle foto, nella scelta delle poesie recitate in persiano e nell’uso del tar, anziché del kamancià. Potete spiegarci il motivo delle vostre scelte?

GC: La Georgia in cui vive e scrive Sayat-Nova è un paese governato dall'Impero persiano già da molti anni e quindi fortemente influenzato dalla cultura persiana. Già nel 1444 Tbilisi veniva invasa e distrutta da Jahan Shah, lo scià della città di Tabriz in Persia. Nel 1510 la città diventa territorio vassallo dell'Iran safavide. Bisognerà aspettare i primi anni del 1800 per vedere il paese liberato dal dominio persiano ed entrare sotto il controllo russo. Quando io e mia moglie Nahid abbiamo visto per la prima volta insieme "Il colore del melograno" ci siamo entrambi sorpresi di quanti elementi persiani vi fossero nelle immagini e nei suoni del lungometraggio di Parajanov. Il regista stesso dichiara di essersi ispirato alle antiche miniature persiane per costruire le scene ieratiche del suo film. Sayat-Nova accompagnava le sue poesie suonando il Kamancheh, lo strumento per eccellenza della lirica monodica arabo-persiana e quindi caucasica. Nel canto 31 del suo Canzoniere Armeno tesse le lodi del suo strumento e della folgorazione e consolazione offerte dall’esperienza musicale.

Orchestra perfetta, lodato fra gli strumenti, kamancià, l’uomo da nulla non sa vederti, gli sei vietato, kamancià, tua meta sia giungere nei giorni migliori, kamancià, chi osa staccarci, sei tu l’agone del trovatore, kamancià. (...) Tu volgi al sorriso il cuore più triste, plachi il tremore all’infermo; se intoni la voce tua dolce, si schiude alla gioia il tuo danzatore....”

Il Kamancheh di Sayat-Nova è uno strumento ad arco di origini persiane ancora largamente in uso in Iran, Armenia e Georgia assieme al Tar, il liuto a corde pizzicate, sempre di origini persiane.
Durante la gestazione del nostro album in più occasioni abbiamo usato frammenti di suoni generati sfregando un archetto su vari strumenti a corda con l'intento di creare suggestioni sonore che possano in qualche modo suggerire il ricordo del Kamancheh del nostro bardo.
Mentre abbiamo usato il Tar in due tracce improvvisando su scale modali come ancora si usa nel repertorio strumentale improvvisato chiamato Avaz. La cultura persiana oltre che nella musica è anche e soprattutto nelle poesie di Sayat-Nova, considerato dai critici il più grande rappresentante della poesia caucasico-persiana del XVIII secolo. Conosceva e scriveva le sue liriche, oltre che nella sua lingua madre armena, in georgiano, turco azerì e persiano, spingendosi persino a mescolare i vari idiomi. Lo Scià persiano Ismail I, fondatore della dinastia Safavide e della poesia in lingua azerì, era il nume tutelare di tutti gli ashugh come Sayat-Nova (il destino ha poi voluto che fu proprio un altro Scià persiano a porre fine alla vita del poeta armeno). Ecco perché la scelta di inserire in due tracce dell’album una voce, quella di mia moglie Nahid Rezashateri, che recita liriche di Sayat-Nova in lingua farsi. Nahid, io e Alessandro condividiamo oltre alla passione della musica anche quella per le immagini in movimento e la fotografia. Il caso ha voluto che Alessandro durante un suo viaggio ha collezionato una serie di scatti proprio in Georgia e Armenia mentre io e Nahid scattiamo foto in Iran ciclicamente da anni. Da qui l’idea di impreziosire il vinile con un booklet fotografico con foto provenienti da tre paesi fortemente legati alla storia di Sayat-Nova tra cui appunto l’Iran.

AC: L’Iran è un luogo del pensiero, un paese che spero di visitare quanto prima. In generale sono molto interessato a tutta la regione che appartenne all’impero persiano e osmanico.
Alcuni dei miei viaggi in quella regione sono stati proprio oggetto di ricerca fotografica legata ai luoghi di Sayat-Nova e all’eredità di Parajanov, del resto
Il colore del melograno appartiene al mio bagaglio visivo da veramente molto tempo e nel corso degli anni ci ho lavorato con diversi linguaggi espressivi.

 


LG: Gianluca, accennavi ad una “poetica del frammento” per descrivere l’essenza di questo lavoro e - cito testualmente - “lavorare per frammenti è già un disporsi verso l’apertura, contro ogni probabile interpretazione monolitica”.

GC: Se non sbaglio ti scrissi questa cosa in riferimento al fatto che mi capita di percepire reazioni diverse all’ascolto del nostro lavoro. Quando ho questa sensazione ne sono felice perché credo fortemente che qualsiasi opera - sonora, visuale, plastica ecc. - debba sempre tendere all’apertura verso l’incertezza e l’indefinibile. Per quanto mi riguarda ho trovato naturale, anche in As Long As You Come To My Garden, adottare un metodo di lavoro basato sull’uso del frammento, che può essere materia originale o anche un ready-made, un footage trovato, decontestualizzato e manipolato per farlo divenire altro. Mi viene in mente un artista fondamentale per quanto riguarda quella che si può definire “poetica del frammento” che è Gianfranco Baruchello, recentemente scomparso. Autore di opere sperimentali imprescindibili che si basano proprio sull’uso del frammento: in ambito cinematografico ad esempio il film Verifica incerta o il libro collage La quindicesima riga. A tal proposito Baruchello scriveva che partendo dal frammento, dal singolo mattone, attraverso il montaggio si può costruire un qualcosa di simile ad un edificio, mentre i frammenti, i vari mattoni sono a loro volta anche i resti, le macerie di un'operazione di decostruzione. I frammenti sono i brandelli del discorso, della narrazione, del tempo e della storia, “il loro montaggio è un tentativo o l’ipotesi di provare a ripensare un mondo, un piccolo sistema dall’equilibrio forse instabile ma che sicuramente vale la pena tentare.”

 

AT: Vivete in due città diverse ma non così distanti da impedire una frequentazione anche quotidiana. Come si è sviluppata la vostra collaborazione.

AC: In realtà tutta la fase compositiva si è svolta a distanza, lavorando da remoto su materiali sonori messi in condivisione attraverso la rete. Questa metodologia di lavoro, inizialmente adottata per necessità e non per scelta, si è rivelata particolarmente azzeccata per questo tipo di progetto, che pone al centro processi di produzione del suono scaturiti da metodologie di indeterminazione e sperimentazione. Il risultato è frutto dell'affinità del nostro orecchio interno, dall'intuito e dall'accettazione dell'imprevisto sonoro proposto dall'altro. Il magma sonoro generato si è rivelato - sorprendentemente e naturalmente - coeso, potente e in linea con le rispettive idee musicali.
A quel punto, la fase di mixaggio, lavorata
de visu a quattro mani, è stata relativamente veloce e semplice. Non ho remore nel definire il risultato finale assolutamente identitario e coerente.
 

LG: Pur presentando ampie suggestioni multietniche è inappropriato etichettare questo lavoro come world music. Forse è proprio il tempo di smettere di apporre (e imporre) etichette generiche a progetti musicali sempre più orientati al sincretismo.

GC: Pur volendo mi risulterebbe estremamente difficile cercare di etichettare il nostro lavoro, che fatico a percepire come mero progetto elettroacustico nonostante questo termine abbracci una vastità infinita di sottogeneri e stili i più disparati. Come accennava Alessandro c’è dentro un pò tutto il nostro immaginario sonoro, i nostri ascolti, suggestioni, visioni e aggiungerei le nostre esperienze di vita come viaggi ed incontri. So che Alessandro è particolarmente allergico alle etichettature musicali quindi sono curioso di sapere cosa ne pensa a proposito.

AC: Più che allergia si tratta di un misto di disinteresse e ignoranza in merito. Comprendo che le etichette siano funzionali e necessarie alla divulgazione musicale, ma anche applicabili ad ambiti e contesti decisamente più idiomatici. Lascerei a chi ascolta tale onere, accettando con piacere ogni tipo di esito.

 


AT: Potete spiegarci il significato del nome Damavand? Cosa dobbiamo aspettarci dal vostro duo per il futuro?

GC: Il Damavand è quella meravigliosa montagna che fa da sfondo alla nostra foto di profilo. È un vulcano quiescente, la più alta vetta del Medio Oriente. Menzionato in diverse leggende persiane, una delle quali la attribuisce come luogo di riposo dell’arca di Noè. La scelta di chiamare il nostro duo con il nome di una montagna nasce dall'idea di usare un termine che in qualche modo ci rappresentasse. Alessandro, oltre a essere un bravo musicista e infaticabile sperimentatore, è un alpinista, scalatore grande amante delle montagne. In Damavand abbiamo visto unite due nostre passioni: la montagna di Alessandro e il mio amore per l'Iran e la cultura persiana. Inoltre, e questo forse non l’ho mai raccontato neanche ad Alessandro, il Damavand è la montagna da cui il mitico arciere persiano Arash scagliò la freccia dal suo arco per ripristinare i territori usurpati dagli invasori. Arash è il mio nome persiano, acquisito con il rito matrimoniale iraniano.
Ci piacerebbe continuare a lavorare facendo riferimento ancora al mondo cinematografico o comunque al mondo delle immagini in generale. In vari momenti abbiamo pensato al cinema di
Andrej Tarkovskij come anche a quello del coreano Kim Ki-duk. Ma credo di poter dire che ad entrambi piace farsi trasportare dalle suggestioni del momento senza programmare nulla di definito, mantenendo sempre viva la propensione verso il mutevole e l’imprevisto.

AC: La connotazione sperimentale di quello che facciamo fa sì che, pur avendo una radicata visione di una nostra idea di suono/forma, le possibilità siano molteplici e polidrome.
Del resto lavorare ibridando diversi linguaggi artistici rispecchia concretamente i nostri interessi e le nostre aree di ricerca. Per parafrasare Walter Branchi, l’obiettivo deve comunque rimanere quello di realizzare una musica che non rappresenti nulla, …e speriamo in buona parte di riuscirci!

 

LG: Grazie.

AC: A voi.

GC: Grazie a voi.

 


https://damavand5671.bandcamp.com/album/as-long-as-you-come-to-my-garden

https://www.alessandrociccarelli.com/

https://www.sarabcollective.com/sounds

www.dieschachtel.com

 

 


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