ALESSANDRO BARBANERA: VIAGGIO AL TERMINE DELLA COSCIENZA

 

 


 

L’oblio è una forma di libertà”.

Kalil Gibran



Oblio (2023, LONTANO Series), del musicista e sound artist Alessandro Barbanera, è un delicato elogio dell’ombra, la contemplazione di un’anima la cui memorie si dissolvono gradualmente fino a svanire. L'opera si snoda attraverso sette composizioni a cui si aggiunge un’ulteriore traccia, descritta nelle note di copertina ma fisicamente assente. L’espediente - che rimanda a certi cortocircuiti logici propri del surrealismo - non è da intendersi come una mera provocazione artistica: l’intenzione dell’autore è di sottrarre letteralmente qualcosa all’esperienza reale, rendendola inaccessibile, perduta per sempre. Non avremo mai la possibilità di ascoltare l’ottava traccia di Oblio e questo suscita in noi un senso di smarrimento. Le precedenti composizioni accompagnano l’ascoltatore verso questa presa di coscienza; Barbanera decostruisce e ricampiona frammenti sonori provenienti dal repertorio pianistico del tardo Romanticismo, trattandoli come reperti archeologici, cocci impossibili da ricomporre, mutati in fitte maglie droniche e soffusi afflati lirici. Nella sua silente magnificenza Oblio è un'esperienza sonora ed emotiva inaspettatamente coinvolgente.





LG: Alessandro, il tuo mondo sonoro prima di Oblio.

AB: Ciao Luca, grazie molte per l’interesse e per questa conversazione. Oblio al momento è l’ultimo tassello di un percorso rivolto ad esplorare paesaggi interiori attraverso il suono, cercando di creare una connessione emotiva, di urgenza espressiva e liberatoria, possibilmente con onestà. Dei tre album, Oblio è probabilmente più incentrato sullo sfaldarsi della memoria e il termine della coscienza; Haunted Houses - composto nel periodo pandemico - vuol parlare di spazi interiori, presenze e assenze, in relazione a spazi fisici ed esteriori; In the Middle of the Path fotografa un momento di transizione nella vita individuale. Mi piacerebbe pensare a questi tre album come una specie di “trilogia esistenzialista”.

Nel mio mondo sonoro credo ci sia sempre stato una sorta di dualismo fra mondo classico e mondo contemporaneo. Ho studiato chitarra classica sin da adolescente, e oltre all’appassionarmi agli autori di diverse epoche, da Bach, a Dowland, a Tárrega, ho potuto avere i primi approcci ad opere di autori contemporanei, ed accorgermi di un certo feeling per quei linguaggi più sperimentali. Poi la scoperta dell’ambient e di Brian Eno è stata una specie di big bang. Nel mio mondo sonoro ci sono Basinski, Tim Hecker, Fennesz, Godspeed you! Black Emperor, Stars of the Lids… A questi aggiungerei l’adagio dal secondo concerto per pianoforte e orchestra di Bartók e The Unanswered Question di Charles Ives fra gli ascolti che più mi hanno influenzato: musica cosmica. …anche C’è musica e musica di Luciano Berio è stata una folgorante rivelazione.

 


LG: La lettura decostruttiva delle pagine pianistiche composte a cavallo tra il XIX e XX secolo: elegante iconoclastia o ipnosi regressiva?

Forse una via di mezzo, se può esserci. L’idea di lavorare su brevi campionamenti di Bartók, Debussy, Ravel nasceva innanzitutto dall’esigenza di esplorare piccoli e a volte microscopici passaggi di certe loro opere. Opere per me significative, in particolare dal punto di vista emotivo. Opere che hanno segnato la vita interiore, e che in quei determinati micro-passaggi racchiudono ricordi e memorie emotive importanti. Così da un lato avevo intenzione di andare ad esplorare quei brevi istanti, anche con un gusto per le imperfezioni, i crepitii, i sobbalzi e i fruscii delle registrazioni, secondo un po’ lo spirito wabi sabi: la “bellezza triste” delle cose incomplete, marginali, vissute. Andare lì ed aprire quei frammenti, vivisezionarli in modo chirurgico per vedere cosa c’è dentro: perché ogni volta che arriva quel preciso passaggio ritorna puntualmente un preciso ricordo, una precisa emozione? Dall’altro lato c’era il desiderio di prendere questa materia, fonderla e trasformarla in altro, forse anche per liberare quei ricordi, superarli, lasciarli andare. Un po’ come la tecnica kintsugi giapponese che ripara gli oggetti con l’oro, una tazza ad esempio: riutilizza i vecchi cocci, i frammenti, ma in sostanza ricrea un oggetto diverso.

 


 


LG: Hai scelto volontariamente di nascondere al mondo l’ultima traccia di Oblio. Gli esseri umani sono spinti costantemente da un istinto di sopravvivenza che è mutuato dalla coscienza, rendendo di fatto insopportabile l’idea di svanire nel nulla (sempre che sia questo il nostro destino). L’arte e la musica sono una lunga preparazione alla morte?

Probabilmente sì, quando l’arte si spinge ad esplorare le profondità più oscure e angosciose dell’esistenza, quando ci mostra l’abisso per poi permetterci di tornare indietro sani e salvi, è come un allenamento a confrontarsi con certe paure. Comunque, credo senz’altro che l’arte e la musica rendano più sopportabile la vita umana. Sono sicuro che l’arte abbia un magico potere lenitivo e consolatorio. È così magica che può creare una potente connessione fra le persone, attraversando il tempo e lo spazio, e ti dice: “Anch’io provo le tue stesse angosce”.

Ragionando sul concetto di oblio mentre lavoravo all’album, cercavo di immaginarmi quale potesse essere l’idea più vicina al nulla da poter esprimere attraverso la musica. Così ho pensato: il silenzio, o un “brano che non esiste”. Era l’idea che più si avvicinava, anche se già le parole “brano che non esiste”, e il fatto di dover indicare comunque il pezzo da qualche parte nella tracklist, rende alla fine il non-brano “esistente”. Esprimere il nulla e l’oblio in modo assoluto, immaginarlo, per la mente umana probabilmente è qualcosa di impossibile e contraddittorio. L’opera più estrema e che mi sembra avvicinarsi a tutto ciò è forse 4’33’’ di John Cage. 4’33’’ è uno spazio quasi rubato al tempo, un contenitore di vuoto, un po’ secondo la visione del buddhismo zen. Con il “brano non-esistente” nelle intenzioni pensavo di creare questo: uno spazio di vuoto. Un brano che non è mai nato, o che è nato ma è stato annullato, dimenticato. Un brano che l’ascoltatore può immaginare come vuole, che può esistere in qualche forma solo nella sua mente. Uno spazio che è libero di riempire come vuole (e se vuole).

 

LG: All’opposto dell’oblio è la memoria: per un musicista essa riveste un ruolo predominante durante la composizione, portandolo a rielaborare stili, schemi e strutture del passato.

Ricercare riferimenti nel passato per me è importante. Andare a ripescare in quel mondo sonoro accennato prima, dove sentire un territorio familiare dal quale partire per rielaborare, re-immaginare. Nel mio processo creativo il ricordare e il dimenticare sono come strumenti di lavoro e questo è particolarmente importante nel caso di Oblio, i cui brani sono nati in gran parte durante la composizione di Haunted Houses. Il “ricordare” interviene all’inizio, nella ricerca di campioni e loop, ripensando a particolari passaggi di brani classici che per me sono stati importanti, emozionanti o memorabili. Così inizio a elaborarli, vivisezionarli, stravolgerli inseguendoli fino al punto dove riescono a portarmi, finché tutto sembra abbastanza soddisfacente. A questo punto interviene il “dimenticare”. Chiudo il nuovo brano in un cassetto, lo lascio lì per settimane o mesi, a volte anche anni, cercando di non pensarci più. Lascio lavorare il tempo, lascio passare e svanire gli umori, le emozioni, la passione con cui mi sono dedicato al brano. Così poi riapro il cassetto, e torno a riascoltare e lavorare il pezzo con un orecchio diverso. A volte il pezzo sembra magicamente migliorato o forse è la mia percezione che è cambiata nel frattempo.

 


LG: Il progetto collettivoinconscio (a cui hai aderito e per cui ti ringrazio) nasce dall’assunto secondo cui esiste oggi un movimento artistico e musicale che - diversamente rispetto al passato - non è accomunato dall’aderenza a un determinato stile e suono bensì dalla volontà di proporre un’alternativa costruttiva alla progressiva plastificazione della cultura (musicale ma non solo).

Quello di collettivoinconscio è un progetto che sento molto vicino per la sua “poetica del frammento”, affine a quella di cui ti parlavo per Oblio. Ognuno contribuisce con un tassello e questo viene elaborato, ricostruito e reinserito in una nuova tessitura dove dialoga e vive insieme agli altri, in maniera anonima, segreta, dimenticato e sgravato della sua precedente esistenza. Mi sembra pure simbolico... Il piccolo seme che ciascuno dona e condivide, con la sua diversità contribuisce a creare qualcosa di più ampio e vivo. Senz’altro un’alternativa necessaria e meditata di fronte alla plastificazione culturale. L’iperproduzione ci sta schiacciando contro il soffitto, appiattendo ogni opportunità artistica. Non si consente neppure il giusto tempo ad un’opera per poter sedimentare. Sembra più un cotto e mangiato, un consumo del prodotto per passare al prossimo e così via, per soddisfare una famelica voracità da mangiatori di loto, un infinito e infernale scorrere di reel in reel.

 



LG: Alessandro Futuro Prossimo.

Ho in cantiere alcuni progetti, anche se negli ultimi mesi ha catturato prepotentemente la mia attenzione un concept immerso in un’atmosfera più onirica e notturna, idea nata da un’improvvisazione di alcuni minuti con un field recording e un campionamento di archi, lento e lontano, misterioso. Quel breve e casuale incontro sonoro mi ha rimandato all’immagine di un pomeriggio grigio e piovoso forse alla fine degli anni ’80: un vecchio televisore trasmette la scena di un film in bianco e nero, dove l’ombra di qualcuno sta salendo le scale. Un processo mentale simile alla madeleine di Proust. Ciò mi ha stimolato ad esplorare musicalmente questo ricordo e, gradualmente ma in maniera organica, sto costruendo un intero album. Ci lavoro come fosse una scultura che emerge dalla massa informe. Ora sono alla fase di levigatura, ai dettagli.

 


LG: Grazie.

Grazie a te Luca. 

 


 

 

 

https://lontanoseries.bandcamp.com/album/oblio





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