ROBERTO MARES: LIBERE GEOGRAFIE CONDIVISE



Un caleidoscopio di sonorità si fonde con eleganza in una sinfonia plurima ed inclusiva, convergendo verso un unico orizzonte che tramuta l’idea del singolo in respiro corale. Nasce dal silenzio assordante, dall’assolutezza di una stagione statica la nuova opera di Roberto Mares, ergendosi da un’idea primigenia per evolvere lentamente in visione cristallina. A comporla concorre un coagulo di suggestioni, istanze e lessici differenti uniti con naturalezza in un insieme coerente, guidato da una ricerca melodica raffinata a cui ciascun autore chiamato in causa dona un contributo indispensabile.
Spirito neoclassico, echi etnici e pattern sintetici di scuola nord-europea emergono da trame strumentali permeate da retaggi post-jazz e voci, canti senza frontiere, che facendo collimare geografie distanti, strutturano in modo delicatamente effimero forme canzoni in dissolvenza.
Ad unire tutto è l’allineamento di mente e cuore, metro imprescindibile per navigare in un vasto oceano di emozioni senza confine.

Peppe Trotta




LG: Coordinate stilistiche, umane e concettuali di Something's About To Happen.

RM: Sono sempre stato un ascoltatore estremamente trasversale e citare riferimenti mi risulta abbastanza difficile. Certo è che ci sono nomi a cui sono particolarmente legato, soprattutto per l’atteggiamento filosofico e spirituale nei confronti della composizione. Ryūichi Sakamoto e David Sylvian hanno avuto sicuramente una grande influenza nel mio modo di comporre: la loro libertà, il non sedersi dentro una casa comoda, è quello che mi ha affascinato del loro modo di lavorare. Sono comunque due compositori che si son sempre spinti più in là nei loro percorsi, possono piacere o meno, ma è innegabile il loro senso di libertà.

Dovessi stilare un elenco di artisti che ho ammirato ed ammiro rischierei una lista lunghissima e che va a pescare un po’ ovunque. Negli ultimi anni ho ascoltato Steve Jansen, Nils Frahm, Ólafur Arnalds, Alessandro Cortini, Julia Kent ma anche molti autori italiani. L’ultimo disco di Bono/Burattini mi è piaciuto molto. Inoltre, ho molto apprezzato i lavori di Shedir (che ho scoperto di recente), Dagger Moth, Fabio Capanni e Adriano Zanni.
 
Ma più che altro, quello che mi segna e attira la mia attenzione è l’atteggiamento di certi artisti nel mettersi sempre alla prova, sperimentando nuovi percorsi, andando a pescare in acque sconosciute, senza che questo sia fine a sé stesso, ma che contenga un pensiero, un’intuizione anche non ben definita. Il bilico è sempre affascinante e porta a scorgere sempre qualcosa di interessante.

 



LG: Il mondo di Roberto Mares prima e dopo SATH.

RM: Questo disco rappresenta per me una linea di demarcazione non tanto stilistica, ma più di accostamento al comporre e vivere la musica che faccio. Un progetto che è partito quasi in sordina durante il lockdown, quando - dopo un periodo in cui avevo smesso di suonare - ho ritrovato il gusto di mettermi al pianoforte ed allestire un piccolo studio casalingo, dedicandomi ad una serie di improvvisazioni che a mano a mano registravo e riascoltavo.
Fino a prima del’inizio del progetto avevo avuto una sorta di rigetto e gli strumenti che avevo in casa giacevano lì, senza emettere suono. L’ultimo progetto tra il 2012 e il 2015 si chiamava MOORPIE ma si trattava di un piccolo collettivo di tre musicisti con cui ho fatto solamente poche cose live e qualche registrazione che è rimasta nel cassetto.

Condivido da sempre ciò che faccio con un amico e una persona che stimo moltissimo: Roberto Manzotti, fotografo e artista. Proprio lui cominciò a stimolarmi per materializzare il tutto in un disco. Andava ripetendo che le cose che gli mandavo gli piacevano molto e che avevano un valore per tentare una produzione seria.

Da lì ho cominciato davvero a pensare di pubblicare qualcosa ma prima dovevo trovare una chiave per radunare intorno a me i brani che andavo componendo. Dunque, ad un certo punto ho avuto quest’idea: sarebbero stati dieci brani contenenti dieci voci di donne in dieci lingue differenti, senza nessun’altra linea di progettualità, ma solamente la volontà di mettere insieme queste dieci voci e sensibilità, lasciando loro la possibilità di scegliere cosa e come intervenire all’interno dei brani.
Ho recuperato anche qualche brano un po' più datato come, per esempio, 1991 (che è proprio del 1991!) oppure Als das Kind Kind War a cui ero particolarmente affezionato, riprendendoli per fare una sorta di ricomposizione.
 
Tutto questo accadeva nell’inverno del 2021. Ad aprile dello stesso anno ho inviato due brani a Julia Kent e a Sara Ardizzoni. Stupito dal fatto che avessero apprezzato il lavoro decido di proporre loro di partecipare al disco. Probabilmente aver avuto queste partecipazioni ha fatto sì che tutto si materializzasse anche molto velocemente.
I brani successivi uscirono quasi da soli, lasciando stupito prima di tutto me stesso che son sempre stato “avaro” in composizione, preferendo cimentarmi nelle improvvisazioni live.
 
Credo che il lavoro su questo disco abbia in un certo senso aperto delle porte che erano sempre state socchiuse. Ho acquisito una consapevolezza del mio comporre che sinceramente faccio fatica a riconoscere ma assolutamente mi sta dando una grande soddisfazione. Devo ringraziare poi alcune persone che all’uscita del disco mi han fatto capire che probabilmente avevo fatto un buon lavoro: Mirco Salvadori, Arlo Bigazzi e Flavio Ferri ma anche altri. Aver avuto i loro riscontri positivi, devo esser sincero, mi ha dato coraggio. 


 
LG: L'anima è (anche) una voce femminile.

RM: La voce è il primo strumento che ho studiato seriamente, agli inizi degli anni ’90 con Germana Giannini (presente nel disco nel brano L'inizio della voce), poi quando mi sono trasferito a Roma per sette anni, frequentando la Scuola di Musica Popolare di Testaccio, attraverso anche i laboratori di Antonella Talamonti (nel disco in Le début du bruit).
 
Non farei una grande distinzione tra voce femminile e maschile; credo fermamente che la voce sia lo strumento che va a toccare il nostro profondo più nascosto.
La scelta di voci esclusivamente femminili è stata principalmente concettuale e di gusto mio personale. Spesso prediligo ascoltare voci di donne, non so spiegarne il motivo preciso.
 
L’aver dato piena libertà alle voci che hanno partecipato al disco mi ha dato ragione in merito a questa scelta. In tutti i brani la proposta di queste artiste si è rivelata subito centrata e mi ha anche stupito positivamente. 

 


 
LG: La condivisione del suono e delle idee con altri artisti è centrale nella tua ricerca.

RM: Quando cerco una collaborazione è per avere un valore aggiunto, per aggregare una sensibilità in sintonia con me ma non necessariamente deve essere sulle mie corde o nel mio ambito musicale, anzi. A volte proprio la ricerca di personalità fortemente diverse dalla mia porta a dei risultati sorprendenti. Con Pina Sabatini - che canta in siciliano in Carrer de Hannover - è successo proprio questo. Pina ha un’estrazione classica e si muove nell’ambito folk ma la qualità e la pasta della sua voce mi hanno sempre colpito.
 
Con i musicisti accade la stessa identica cosa: Massimo Fantoni era con me nel Koan Loop Ensamble nei miei anni passati in Toscana (anni 2000). Abbiamo condiviso ascolti, modalità di improvvisazione e mi ha sempre affascinato l’uso non convenzionale che fa della chitarra. Con Fabio Capanni, che ammiro e ascolto da moltissimo tempo e che ho avuto il piacere di conoscere a settembre, è scattata subito una sintonia incredibile. Proprio per questo ho proposto a Fabio di contribuire con le sue chitarre in un brano, Only happens now, che ho composto mentre stavo facendo il mastering di SATH e che è stato rilasciato su Bandcamp successivamente.

La condivisione del suono e delle idee con musicisti che si muovono in territori simili o anche molto distanti è sempre stato un aspetto che mi affascina molto. Uno dei musicisti che ha partecipato ed è stato presente in maniera costante nell’evoluzione di SATH è stato Adriano Barioli che ha ascolti e frequentazioni completamente differenti dalle mie ma condivide con me la curiosità di andar a passeggiare in strade nuove e sconosciute senza farsi troppe domande.
 
La libertà è una delle costanti nelle partecipazioni ai miei brani. Accade spesso che io non dia indicazioni di quel che mi piacerebbe sentire; mi sembrerebbe di porre delle limitazioni, dei vincoli che blindino in un certo qual senso il risultato finale. 


 
LG: Nel tuo lavoro (esattamente come in molti altri progetti musicali) il confine tra Oriente e Occidente è impalpabile. Una constatazione che deve indurre a riflettere, soprattutto in tempi di odio e morte.

RM: È un terreno estremamente difficile quello che mi proponi. Credo che attualmente ci siano distanze, non geografiche, che portano alla situazione drammatica che stiamo vivendo. La responsabilità maggiore sicuramente è il modello economico che ci è stato imposto che porta a divisioni, a marcare le differenze. L’arte e la musica in particolare hanno nei loro compiti, a mio parere, quello di unire e avvicinare le persone, ma questo lo fanno per loro natura, non per una scelta precisa. Sono linguaggi che superano le differenze, almeno per come li intendo io, che possono unire le persone, lavorano senza filtri e senza preconcetti. Come dicevo, la possibilità di mescolare le culture può portare solamente ad avvicinare le persone, non a mettere distanze.
 
Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento è l'apertura verso l’altro, verso le diversità che spesso sono solo apparenti. 

 



 
LG: Orizzonti eventuali di Roberto Mares.

RM: Ci sono alcuni brani del disco, in particolare la traccia con Fabio Capanni oppure Monte Clérigo, che sento più vicine al modo di intendere la composizione adesso. Vorrei riuscire ad avere un piccolo live per presentare il disco ma spesso mi ritrovo a cominciare un brano per poi fuggire verso altri lidi. Dovrò necessariamente darmi un po’ di più disciplina in questo, oppure accettare che questo è il mio modo e dunque faccio fatica a eseguire “cover” anche di me stesso.
 
Amo il suono del pianoforte e degli archi, ma lavoro anche con synth ed effettistica e l’unione di questi due mondi sono la cosa che più mi piace in questo momento. Nel brano Only happens now c’è un uso delle percussioni che si avvicina molto di più alla concezione di inserire semplicemente dei rumori, anche senza disegni ritmici precisi.

L’opportunità di esser venuto in contatto con una serie di musicisti, durante la frequentazione per la mia piccola promozione sui social, mi spinge a scoprire altre strade di possibili collaborazioni. Ho ascoltato in questo periodo molte cose di artisti che conoscevo marginalmente o che proprio non conoscevo. Questa cosa la vedo come una serie di possibilità future, anche per mettere alla prova me stesso in rapporto con gli altri.

 
Il confronto diretto con altri artisti è la molla che mi spinge a trovare variazioni a quel che faccio. Proprio la condivisione forse è la modalità che cerco di più in questo periodo.
 
LG: Grazie.
 
RM: Grazie a te.

 


 
 

Commenti

Post più popolari