HANDSANDNUMBERS: TUTTO È NUMERO, NUMERO (NON) È TUTTO
Reticolo di convulsa e digitale acidità timbrica, Incidental Effects è un altro tassello dell’arte concettuale di Handsandnumbers, il progetto di Giuseppe Torre nato più per porre domande piuttosto che semplicemente fornire risposte.
Un EP dal minutaggio fulmineo che - al pari di una neonata autocoscienza artificiale - si interroga in merito alla sua natura, alla sua funzione e al rapporto con una controparte biologica la cui voce udiamo solo in chiusura.
Grazie al supporto di Stochastic Resonance (che ringraziamo) è stato possibile dialogare con l’autore e affrontare un ventaglio di affascinanti questioni legate alla sostanza stessa della creazione digitale, in una conversazione capace di inoltrarsi in territori tanto metafisici quanto distopici.
Nato a Verona nel 1980 Giuseppe Torre, dopo aver completato gli studi, decide di specializzarsi in musica elettronica all’estero.
Nel 2005 frequenta il Master in Music Technology presso la University of Limerick (Irlanda). Dal 2008, sempre nella medesima università, ricopre la cattedra di Professore Associato; il suo ambito di ricerca spazia dalle pratiche artistiche digitali alla tecnologia e cultura open source. I suoi scritti accademici sono stati pubblicati da case editrici come MIT Press, Springer, Routledge/Taylor & Francis e Palgrve McMillan.
In veste di artista, si è esibito in vari contesti internazionali (Transmediale, ICLC, ICMC tra gli altri).
Membro del Digital Media Research Centre (http://dmarc.ul.ie/) e dell’International Steering Committee per la International Live Coding Conference (https://iclc.toplap.org/) nonché editore presso la Digital Art & Humanities Anthem Press Series (https://anthempress.com/anthem-digital-arts-and-humanities-series) Torre è sostenitore del FLOOS (Free and Libre Open Source Software) nell'insegnamento e nella pratica professionale di tutte le arti digitali.
LG: Incidental Effects: performance concettuale di una manipolazione estemporanea?
GT: Sì. Incidental Effects è l’esposizione di un concetto, o di una questione filosofica, presentata attraverso gesti musicali che eseguo su una tastiera di un computer nelle vesti di live coder.
Il problema filosofico che presento riguarda la nostra relazione col mondo digitale. In che misura, chiedo, il gesto musicale eseguito attraverso un dispositivo logico-quantitativo può lasciare una traccia del se (artistico)? In che misura è il dispositivo a dirigere il mio fare (o a dire la sua) e in che misura sono invece io a dirigere il suo (e dire la mia)?
Tali questioni hanno radici che affondano nel dibattito riguardante la differenza tra strumenti e tecnologia moderna. Dibattito dove in molti hanno sostenuto - e sostengono - che la tecnologia contemporanea non può essere ridotta a mero strumento. In questo contesto, l’EP si conclude con un dialogo tra Marshall McLuhan e un membro della platea che aveva assistito alla sua lezione fatta per la TV. La signora, conscia della presenza delle telecamere, chiede a McLuhan se il proprio porre domande, in tale contesto mediatico, abbia davvero un senso se fossimo davvero succubi delle infrastrutture tecnologiche. La risposta di McLuhan è a mio avviso geniale (riassumo): non è che non abbia un senso. È solo che di fronte alla forza di tale infrastruttura mediatica il tuo messaggio è semplicemente incidentale.
Ed è qui che il mio fare all’interno della performance viene messo in dubbio: le mie azioni, la mia gestualità artistica, nella sfera del digitale sono incidentali; in breve, di nessun valore. A parlare è solo il digitale, inteso come struttura tecnica, sociale e culturale. Sono consapevole di come tale affermazione faccia inorridire qualsiasi artista. L’ho sicuramente presentata brutalmente e mi contraddico nel fare. Tuttavia, a oggi, la mia riflessione sembra essere giunta a questo punto.
LG: All'ascolto, l'EP presenta analogie con le sperimentazioni di artisti come Autechre, ad esempio. Eppure, questa tua propensione a scomporre e ricomporre matematicamente gli elementi musicali potrebbe giungere da molto lontano nel tempo. Penso alla nascita del sistema tonale, anch'esso un tentativo di organizzare il suono all'interno di uno schema logico al fine di comprenderne la natura.
GT: Grazie per l’accostamento ad Autechre, mi lusinga. Logica e arte non sono mai state separate. C’è sempre stata una logica nel fare degli artisti, tanto quanto una logica negli strumenti da loro utilizzati. Tuttavia, rimane da valutare i modi nei quali queste logiche si esprimono.
A mio avviso le logiche appartenenti al fare delle pratiche artistiche digitali (che siano sonore, visive o performative) si esprimono in maniera diversa da quelle inerenti alle arti tradizionali (per esempio, musica classica, pittura, scultura etc.). La differenza è che nelle arti tradizionali – quelle in cui si può parlare di una relazione tra artista e strumento che subordina lo strumento a oggetto di potenziale dominio per l’esecuzione di una miriade di esigenze che riconducono all’individuo - le logiche fanno da contorno ma rimangono tuttavia implicite e, in quanto tali, diventano oggetto da portare alla luce.
Questo è il lavoro dei teorici e, a volte, del processo di riflessione e crescita personale dell’artista. Nelle pratiche artistiche digitali - dove la relazione tra artista e strumento (i.e. apparato tecnologico digitale) appare per molti versi opaca se non addirittura a vantaggio della seconda - le logiche devono essere esplicite e non può essere altrimenti. Questo perché (indipendentemente dal fatto che si capisca di hardware, codici di programmazione oppure no) qualsiasi gesto eseguito attraverso uno strumento digitale è sempre un gesto tradotto in un contesto logico-numerico esplicito perché è esclusivamente questo il modo in cui il digitale esiste e si esprime.
Tutto quello che noi facciamo con un computer è un numero, che sia una chiamata online o una composizione musicale. Rimane da capire quindi quale è la relazione tra me, il mio essere artista, il mio fare come mio, il modo in cui il digitale lo rappresenta e le modalità di questo dialogo.
LG: Handsandnumbers: storia di un moniker.
GT: Il moniker handsandnumber riassume il punto di scontro sul quale si orienta il mio fare artistico e teorico. Da un lato ci sono le mani (hands) con le quali ho dedicato buona parte della mia vita a imparare uno strumento tradizionale: la chitarra classica. Con le mani ho accarezzato le corde della mia chitarra. Con le mani ho cercato di dare un suono, il mio suono, a questo meraviglioso strumento. Con le mani ho cercato di dare voce al mio sentire e a cercare di scoprire una mia voce artistica.
Le mani sono quella parte del mio corpo con la quale manipolo la materia (le corde in primis e il suono che ne scaturisce come conseguenza e fine ultimo). Trovo in questa manualità - e nella sua capacità di trasformare il mondo con modi che riconducono a un rinnovato senso di sé - l’essenza stessa dell’arte e lo affermo nella piena consapevolezza che l’arte contemporanea si muova da più di un secolo quasi esclusivamente sul piano opposto, cioè concettuale.
Dall’altra invece ci sono i numeri (numbers, la seconda parte del moniker). Come artista la cui pratica si sviluppa a diretto contatto con gli strumenti digitali sembra che la “materia” a mia disposizione sia fatta di soli “numeri”. Il risultato percettivo che questi numeri producono (i.e. l’output sonoro o visivo) è solo secondario. L’essenza del gesto digitale è la sua numerabilità mentre quella di un gesto qualsiasi è la sua innumerabilità.
Handsandnumbersè un riflesso di questo conflitto, una tensione che è alla base di qualsiasi pratica artistica che si evolve in relazione al mondo digitale.
LG: 'Dovremmo allora pensare che le uniche tracce della nostra esistenza siano tracce numeriche?' Approfondiamo questa tua ipotesi: le entità biologiche possono essere ridotte a meri codici numerici? Se la materia stessa è un elemento fattorizzabile, lo è pure la coscienza?
GT: Comincio con la seconda parte della tua domanda. No, nulla può essere riconducibile a meri codici numerici. Né un singolo suono, né un’entità biologica, né la coscienza, né la realtà nella sua totalità.
Mettendo da parte una consistente letteratura a riguardo, credo che chiunque difenda l’ipotesi che una qualsiasi cosa possa essere riconducibile a meri codici numerici - riconducendo quindi l’essenza o la totalità della cosa stessa a delle mere strutture logico-quantitative - pecchi semplicemente di un immotivato positivismo tecnologico. In breve, si confonde la rappresentazione di una cosa per la cosa stessa.
Se fosse davvero così, ovvero che digitale e realtà coincidono, dovremmo forse pensare che un futuro super computer possa creare realtà parallele e contigue alla nostra? Siamo davvero così infatuati della nostra tecnologia da arrogarci il potere di creare nuovi mondi? Il digitale, a mio avviso, è solo un modo di rappresentare e presentare il mondo attraverso strutture logiche e numeriche, con tutti i limiti che tale approccio necessariamente comporta – non ultimo quello di non potersi sostituire o sovrapporre alla cosa stessa.
Con questo mi riconnetto alla tua prima domanda. Se la distanza tra un gesto e la sua rappresentazione in forma di codice numerico è incolmabile ne risulta che, sì, le uniche tracce future della nostra esistenza saranno tracce numeriche. Sembra distopico o semplicemente triste da dire, me ne rendo conto. È il prezzo che ogni artista del digitale dovrà pagare quando, come per tutti, arriverà il momento di saldare il conto. A conto saldato, l’unica cosa che rimarrà di noi, di una vita spesa nella sfera del digitale, sarà solo la nostra anonimia in un mondo di numeri.
LG: In Incidental Effects l'utilizzo della tecnologia e del materiale sonoro è minimo. È un interessante esempio di come la presenza di limiti auto imposti abbia un effetto migliorativo sul processo creativo.
GT: Sì, senz’altro i limiti sono più fruttuosi delle possibilità. In Incidental Effects c’è un blend di minimalismo tecnologico e massimalismo sonoro.
Mi spiego meglio. L’approccio compositivo prevede due cose. La prima consiste nell’aver voluto usare codici di programmazione come metodo e strumento compositivo. Tale approccio si ispira alla live coding culture ma ha un obiettivo diverso. Se nel live coding l’obbiettivo principale è abbattere il quarto muro creato da un monitor (immaginiamo le tipiche performance dove un musicista si “nasconde” dietro uno schermo che nessuno vede), la mia intenzione è invece quella di avvicinarmi il più possibile alla materialità del digitale (se di vera e propria materialità è lecito parlare).
Invece di usare software che si presentano all’utente con un immenso arsenale di possibilità’ tecniche, ho voluto cominciare da zero, per così dire, anche se non si parte mai da zero. La manipolazione di un codice di programmazione, quindi, mi mette a diretto contatto con la logica del digitale. In altre performances, per esempio, ho utilizzato solamente il command prompt (e.g. Terminal).
Partendo da questo minimalismo tecnico mi sono poi prefissato di minimizzare anche le righe di codice e limitare a un solo suono di synth ciò che queste potevano generare. In tal senso, l’obiettivo è stato esplorare quanto l’uso minimo di un codice possa ricondurmi a un rinnovato senso di me stesso (se artistico). Posso trovare la mia voce in relazione a poche righe di codice? C’è un po’ di me in queste?
Nel rispondere a queste domande, e partendo dal suddetto minimalismo tecnico, ho poi voluto vedere quanto materiale sonoro potesse essere generato attraverso tali severe restrizioni. In questo senso il risultato sonoro è massimale.
LG: Come e in che misura la tua professione ha influenzato la tua ricerca musicale.
GT: Lavorare all’interno di un contesto universitario e non in un Conservatorio o una Accademia d’Arte ha sicuramente influenzato la mia ricerca artistica. Sebbene oggi queste istituzioni siano equiparate da qualche decennio i loro approcci sia pedagogici sia di ricerca artistica rimangono diversi, se non addirittura conflittuali.
Come docente universitario, per esempio, prevedo che le mie classi debbano includere in egual misura nozioni storiche, teoriche, tecniche nonché artistiche. Diverso è il contesto dei Conservatori e delle Accademie, almeno rispetto ai tempi in cui li frequentavo io (sono stato un allievo di chitarra classica del Maestro Marco Cappelli, presso il Conservatorio di Palermo). Lì le classi erano perlopiù individuali (il maestro e il singolo allievo) e si imparava praticando l’arte.
Allo stesso modo, da quando insegno alla University of Limerick, ho immediatamente sentito l’esigenza di approfondire gli aspetti teorici della mia pratica. Ciò mi ha portato a scrivere e pubblicare molto, cosa che continuo a fare. In un certo senso, dovendo accomodare in egual misura due modi di far ricerca - quella teorica e universitaria e quella pratica tipica delle scuole d’arte – ammetto di essermi complicato la vita. Tuttavia, lo faccio con passione, mi piace e senza dubbio mi reputo fortunato a poterlo fare.
LG: La tua biografia futura.
GT: Sono un pensatore che sente la mancanza della manualità, del proprio fare con le mani per sentirsi al mondo. Ma quando ho occasione di manipolare, non faccio altro che pensare al perché del mio fare. E il ciclo si ripete.
LG: Grazie.
GT: Grazie a te.
https://stochastic-resonance.bandcamp.com/album/sr-026-incidental-effects
https://giuseppetorre.gitlab.io/
https://pure.ul.ie/en/persons/giuseppe-torre
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